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sabato 26 dicembre 2009

Come dalle Svalbard a Lucca e ritorno



Ciao nonna, mi dispiace.
Mi dispiace, sì, ma non potevo rimanere lì con te e la mamma. Abiti in un posto fantastico, e quest'estate ho visto quante meraviglie può darci il mondo. Ho imparato tantissimo da quest'estate, compreso il fatto che nel mare si possono fare i bagni senza morire di freddo, e poi che il sole ci può asciugare con una carezza calda.
Ma mi mancava la carezza del babbo, molto più calda di qualsiasi sole. E non è solo questo. Ho iniziato l'anno scolastico a casa vostra, a Lucca. Bellissima.
La scuola, le maestre, i compagni, è tutto diverso. Bello, ma è una bellezza troppo visibile, forse troppo semplice, che non mi entusiasma, alla fine. Via via che si avvicinava il Natale, ripensavo alla notte infinita, a quel buio che ti rende la vita difficile, ma che ti avvolge, e ti accarezza, come il babbo. Da voi non c'è il profumo del Natale che abbiamo qui, non fa abbastanza freddo. Mi scappava da ridere quando ai primi di novembre ho visto te e le tue amiche mettervi addosso tutti quegli animali morti per proteggervi dal freddo che non c'è. Mi ha raccontato il babbo che tanti anni fa anche qui uccidevano gli orsi per fare cappotti e per difendersi, adesso li uccidono solo quando è proprio necessario per salvarsi la vita .
Ti giuro che ci ho provato: volevo tanto stare con voi ma non ci sono riuscito.
Il babbo è venuto a prendermi all'aereoporto con la maestra e insieme siamo andati alla mia scuola dove abbiamo fatto gli addobbi di ghiaccio e dopo abbiamo mangiato frittelle .
Quando siamo arrivati a casa ho trovato nella mia camera la foto della mamma e del babbo che prima stava in salotto. Il babbo mi ha spiegato che vuole tanto bene alla mamma perchè è grazie al loro amore che sono nato io, ma adesso non potevano più stare insieme perchè alla mamma non piaceva questo modo di vivere, del resto nemmeno il babbo avrebbe potuto starsene in via Fillungo a guardare le vetrine o in fila per tornare a casa. Hanno deciso così per il rispetto di quell'amore che li ha tenuti insieme tanto tempo: entrambi hanno adesso scelto la vita che desiderano. Non è come sussurravi alla mamma, no: la nostra non è una famiglia rovinata. La mamma è felice di essere tornata a Lucca, il babbo non ha più il tormento di averla portata qui. E io sono più felice adesso di prima.
Vorrei tanto che tu venissi a trovarmi per conoscere la mia maestra che adesso vive con noi e ti prometto che quando comincerò a studiare per continuare il lavoro del babbo verrò ad abitare da te.
Il babbo dice che non devo mettere dentro la lettera la formina di ghiaccio a forma di cuore che ho fatto per te e la mamma, perchè si scioglie e scolora l'inchiostro. Allora insieme alla lettera ci metto la foto, prima che si sciolga. Ricomincerò a scriverti e a parlare con te su Skype, ma questa lettera volevo che rimanesse: la carta e l'inchiostro hanno il loro profumo, come il Natale. Il profumo del Natale non ha alberi, foglie, formiche, cani, fiori. Il profumo del Natale è fatto di carezze e abbracci. E anche di buio che avvolge. Aspetterò con trepidazione l'arrivo del primo sole, qui a Longyearbyen.
A marzo, con gioia.
Ti voglio tanto bene, come dalle Svalbard a Lucca e ritorno
Francesco

mercoledì 16 dicembre 2009

...come da qui alle Svalbard e ritorno


Caro babbo,
ho tanto bisogno di scriverti ora, e lo sto già facendo. Lo so che ci siamo parlati ieri notte su Skype, ma sono così impaziente di dirti quello che mi è successo oggi, che non ce la faccio ad aspettare. E poi mi piace scriverti.
Stamani io e la mamma siamo usciti per andare in città. Avevo con me la scatola che mi aveva spedito la nonna e stavo con il naso incollato al finestrino della macchina a guardare.
La strada, l'erba, le persone che camminavano senza berretto, i colori; c'erano troppe cose da guardare, e poi il cielo. Era blu, blu come non ti so spiegare, blu come la casa del tuo amico Sven, ma il colore era sospeso in aria e verniciato in tutto il cielo. La mamma ha parcheggiato in una piazza, piazza Santa Maria, intorno c'erano delle belle case colorate come a Longyearbyen, e siamo saliti sulle mura. Mentre camminavo, sentivo il rumore dei sassolini sotto le scarpe, non gli scarponi, e camminavo sul bordo dove c'è l'erba, tenevo la scatola della nonna sotto il braccio. Ho visto le formiche che trasportavano pezzetti di foglie, bricioline di pane, tantissime formiche. E dei signori in bicicletta, tantissimi anche loro, come nella palestra, ma loro non stavano fermi sui rulli, no, anzi, si muovevano molto velocemente. Il mondo è meraviglioso.
Mi accorgo che non ce la faccio a dirti le cose in ordine come vuole la maestra Ingrid, vorrei dirlo pure a lei che cosa mi sta succedendo, anzi glielo dirò sicuramente. Comunque, ti stavo dicendo che siamo saliti sulle mura grandissime e robuste della città, e abbiamo fatto una lunga passeggiata. Dopo poco ho detto alla mamma di fermarsi, ho aperto la scatola e ho tirato fuori una foglia. Le foglie dell'albero erano uguali alla mia: con le punte come una stella, il rigo nel mezzo, il gambo in fondo. Quante volte l'avevo presa tra le mani! La mamma ne ha staccata una dall'albero e me l'ha data. Una foglia. La mia era secca e gialla, invece questa non faceva rumore a piegarla tra le mani, era verde, e aveva un profumo di fresco. La mamma mi guardava e rideva. Era una foglia di platano; l'ho appoggiata sul viso, era morbida morbida. Il platano è gigantesco, il tronco è marrone chiaro, ha le radici nodose e lunghe; è saldo nel terreno. Ho messo la foglia fresca nella scatola e abbiamo continuato a camminare.
Avevo caldo mentre camminavo, ero contento ed emozionato. Il vento era una specie di carezza della mamma, non tagliava la pelle. Mi sembrava che tutte quelle belle cose stessero lì per me, solo per farmi piacere, e io ridevo e ringraziavo il cielo e gli alberi e le formiche e le farfalle e i cani e i gatti e le biciclette e tutte quelle belle persone di esistere. E il sole. Mamma mia, come scaldava, e come era alto! Abbiamo continuato la passeggiata, e io sono ruscito a riconoscere e confrontare la foglia del tiglio, del leccio, del pioppo, dell'ippocastano. Il tiglio aveva i fiori gialli e un profumo buonissimo, che non so descriverti. Non riesco a parlarti degli odori, quelli vanno sentiti e basta, posso dirti che ne ho sentiti tanti. Anche la terra fresca. Alcuni fiori. L'erba. E poi il sapore dell'erba. Anche se la mamma non voleva, ho preso un filo d'erba e l'ho strizzato tra i denti. Aveva un sapore acidulo e allegro.
Io penso che le persone che stanno qui siano felici. Non manca loro niente. Eppure ho visto alcuni visi seri seri, forse anche tristi. Tristi come lo sono diventato ora, improvvisamente, da un secondo. Tutte quelle cose e persone che mi stavano intorno non possono far niente per la mia tristezza. Mi manchi, babbo. Forse a quelle persone tristi manca il loro babbo. Mi manchi tu e il vento polare, e i tramonti che durano un giorno intero, il giorno polare che dura quattro mesi e la notte polare, quella che dura quattro mesi. Mi manca anche quella. Le partite con te a Visual Game nelle notti che non finiscono mai; ora che ho rivisto gli alberi, quando mi capiterà la tesserina con la scritta "albero" non avrò più incertezze. La mamma non me l'ha detto, ma credo che lei non voglia più tornare da te alle Svalbard. Io sono orgoglioso di te, che fai un lavoro importante, che ti piace. Mi hai detto un giorno, serio serio, che studiare i cambiamenti del clima delle Svalbard è importante per tutto il mondo. Wow! mi sono detto, il mio babbo fa una cosa importante per tutto il mondo. Finite le vacanze estive, ricomincerò le scuole qui. Io spero che tu venga presto a trovarmi. Oggi ti ho spedito la scatola della nonna, con le foglie nuove. Ci ho scritto platano, e leccio, e pioppo, e ippocastano, e tiglio.
Voglio che tu venga presto a trovarmi, ti aspetto.
Ti voglio bene come da qui alle Svalbard e ritorno
Francesco

martedì 8 dicembre 2009

Viaggio in Scozia 6: i verdi e i blu di Glencoe








Venerdì dodici giugno 2009, mattina.
Giornata stupenda, al momento. Il sole occupa di diritto la dining-room in legni chiari del B&B dove ho appena dormito. Dopo la colazione, chiedo ed ottengo dalla padrona di casa il permesso di attardarmi in soggiorno, sfruttando la loro Wi-Fi e il mio piccolo e leggero pc per cercare un alloggio per stasera. La ricerca non è molto facile, durerà per circa un'ora: all'approssimarsi del weekend molti residenti si spostano, anche di poco, per dormire fuori casa. Trovo finalmente un alloggio a Crianlarich, telefono per prenotare e finisco di preparare i bagagli, parto tardissimo rispetto agli altri giorni, le undici passate. Dopo otto chilometri dalla partenza, attraverso un ponte nel tratto in cui l'ampio Loch Linnhe si restringe e diventa il Loch Levin. In realtà sono entrambi due tratti di mare che degli stretti istmi fanno passare per laghi. Ci si confonde, come dicevo qualche giorno fa, sulla denominazione - mare, fiume, lago - degli specchi d'acqua, e il confondimento è un piccolo grande piacere. Sarei tentato, se non fosse tremendamente tardi, di tuffarmi sfidando le basse temperature dell'acqua. Ci sono spiagge, qui, che non hanno niente da invidiare a certe spiagge dei mari del sud. L'acqua è però così fredda da consentire solo rapidi bagni con un accappatoio che ti aspetta fuori del mare. Tiro innanzi e attraversando il ponte inizio una strada in direzione sud-est che mi allontanerà sempre più dal blu del mare e mi condurrà verso il verde, che siano erbe di pascolo o faggi o abeti o larici.
A sinistra della strada intravedo un piccolo centro, Glencoe, dove mi fermo a fare rifornimento di acqua e Kit-Kat. Glencoe è anche il nome di questa specie di gola lunga e stretta che si inerpica in questa zona montuosa. Ora percorro la strada di fondovalle in costante ma non ripida salita.
Passo il primo piccolo valico e ho sulla destra e sulla sinistra della strada due monti alti circa mille metri. Sulla loro sommità ci sono placche di ghiaccio. Lo zero termico è bassino da queste parti. Più avanti, un lago dal colore verde e blu.
Le mie parole sono inadeguate per descrivere paesaggi del genere.
Hai tutta la imponente visuale dei monti senza ostacoli, dalla base alla cima: smussati, sono di derivazione geologica antica, il resto del lavoro l'ha fatto il vento, hanno dei solchi che li percorrono per tutta la loro altezza, se osservi meglio ti accorgi che sono dei piccoli torrenti. Ti soffermi poi sul verde: non pensavi che potesse essere di così tante sfumature. Da queste parti hanno girato "Highlander" e "Brave heart", per la fotografia non hanno avuto grande necessità di ritocchi. Per chilometri e chilometri sarà sempre uguale e sempre diverso. Gli ingredienti si mescolano: puoi vedere l'erba diventare a tratti roccia, dei torrenti riversarsi in un laghetto, un bosco di abeti intorno al lago, alzi gli occhi e ti soffermi sul cielo ha ripreso a produrre nuvole di varia foggia, il vento che ti accarezza. Oppure vedi in lontananza altri tre monti che sembrano sbarrare la strada - due ai lati, uno davanti - e pensi con soddisfazione che, in modo del tutto misterioso, passerai proprio da lì. Chilometri e chilometri di niente, di verdi e blu che si mescolano e si compenetrano, al punto da chiederti se arriverai mai in un centro abitato.
Dopo il valico, una lunga discesa, ancora laghi, fino ad addentrarsi in un fitto bosco che mi accompagnerà fino a destinazione. Nel frattempo il clima ha fatto in tempo a mutare: una minuta pioggia che mi fa desiderare, unita alla fame e alla stanchezza, una camera e un pasto caldo.
Sono le sette e tre quarti, ho attraversato Crianlarich, riprendo il bosco e vedo la mia meta: il vialetto di ingresso che conduce ad una casa bianca con tetto di paglia, due comignoli accesi, la riserva di legna da un lato e due pendii colmi di verde che la accarezzano. In questo momento non chiedo di meglio: essenza, bellezza, semplicità.
A domani
(Toni La Malfa)
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domenica 22 novembre 2009

Viaggio in Scozia 5 - verso le montagne






E' l'undici di giugno 2009, giovedì. Stamani ho puntato la sveglia alle 4. Tra poco me ne tornerò a letto, ma intanto spero di vedere, dalla mia camera, il sole che si leva dal mare. I bagliori nel cielo mi dicono di sì, forse le nuvole sono più distratte a quest'ora. Sì: la luce si concentra in un punto, intanto tento qualche foto. Ho un giardino davanti alla mia camera, e il sole passa da una fessura all'altra, via via più netto e luminoso. Il solstizio d'estate si avvicina, e a questa latitudine la lotta tra la luce ed il buio è drammatica; ora è la vita, ma a dicembre è durissima vivere qui, una specie di miracolo, con un vento tagliente, il freddo, e quattro ore di luce. Una durezza di questa gente che si tempera con l'accoglienza e il calore, l'ospitalità che in molti dimostrano, senza alcuna necessità né voglia di doversi "prostituire" ai turisti. Lo spettacolo dura una ventina di minuti, ora prevale il sonno e me ne torno per tre ore a letto.
Oggi non torno sui miei passi, ma punto verso la parte sud dell'isola di Skye, ritornando in Scozia con un traghetto, una mezz'ora di navigazione. Alle otto e mezzo lascio il B&B - anche qui una finestra del soggiorno che si affaccia su una vista da sogno - e cerco di pedalare di buona lena per raggiungere Armadale a ventisette chilometri, il traghetto parte ogni mezz'ora. Un primo tratto collinare pressoché deserto è costituito da brughiera senza alberi e da vento dell'Oceano, e un'aquila mi tiene compagnia per una decina di minuti. La vedo ad una cinquantina di metri da me, parte in volo da un costone di roccia e comincia la sua danza di avvitamento nell'aria, e sale, sale. Raggiunge in breve il monte più alto visibile da qui, e continua a salire. Dal punto di vista strettamente utilitaristico, non le serve a niente salire così in alto: non ci sono ripari, non c'è cibo lassù, non ci sono altri esemplari della sua specie. Io credo che lo faccia per il puro piacere di volare alto come solo lei sa fare, e forse perché ogni tanto se ne vuole stare da sola, in silenzio.
Raggiungo la costa est dell'isola che guarda costantemente la vicina Scozia. L'ambiente si ravviva: è un susseguirsi di calette con acqua trasparente, e versanti collinari con erba verde smeraldo e fiori che muoiono nel mare. Crescere in questi posti significa abituarsi alla bellezza ubiquitaria, senza compromessi.
Raggiungo il traghetto, durante la navigazione scambio quattro chiacchiere con una coppia di italiani in luna di miele. Loro hanno fatto con la macchina un percorso molto più ampio del mio, è un altro tipo di vacanza. Ogni sbaglio, deviazione o strada interrotta è per loro un piccolo contrattempo di cinque minuti, io lo vivo con intensità e delusione; per contro, di fronte ad uno struggente panorama, un regalo inatteso che si apre improvvisamente agli occhi dietro una curva, io me ne rallegro il doppio di loro. E la sera quando guardo sulla cartina la strada che ho percorso, penso con soddisfazione al fatto che le mie gambe hanno fatto tutta questa strada, nient'altro che le mie gambe.
Ecco Mallaig, un piccolo centro con un porticciolo denso di pescherecci. Dicono che si possa vedere qualche foca da queste parti, mi soffermo sull'acqua per qualche minuto, nessun avvistamento. Rimonto in bici, e percorro la strada che mi porterà a Fort William, un tragitto ondulato che per il primo tratto si mantiene vicino al mare.La strada va decisamente a sud, e finché è possibile, costeggia il mare. Allontanarsi dal mare è una follia, soprattutto se punteggiato di scogli e isole, frastagliato dal vento e dalla salsedine, disegnato dalla mano di un bimbo fantasioso che lo ha dotato di golfi, calette, istmi, scogli, ghiaia, dune; per giunta ti giri sull'altro lato della strada e trovi un susseguirsi di canali e laghi, il confondimento è massimo. La poesia si interrompe nell'attimo in cui comincia a piovere: una pioggia fredda e torrenziale che mi costringe a mettermi k-way, i pantaloni e le sacche impermeabili sugli zaini. Continuo a pedalare per un'ora in una melma composta di acqua e fango.
La strada piega ad ovest, torna il sole e pare che la pioggia non sia mai esistita. Ora costeggio per una quarantina di chilometri il lungo e stretto Loch Eil, fino a Fort William, una graziosa cittadina dotata di due piazze, una via che le collega, e dei villini nelle vie circostanti. E' un punto strategico di partenza per le escursioni verso il Ben Nevis, il monte più alto del regno unito, sopra i 1300 metri. La sua cima, eternamente ricoperta - anche d'estate - di una placca di ghiaccio, è sgraziata: è ripiegata su se stessa, come la sommità di un cono gelato che si sta sciogliendo. Molti turisti, dunque, il che mi crea problemi per trovare un B&B. Dopo alcune telefonate, nonostante i 100 chilometri già percorsi, sono costretto a farne altri 17 per raggiungere un B&B a Onich, completamente immerso nel bosco. L'ultimo tratto di strada, comunque, è un bellissimo lungo lago del Loch Linnhe tappezzato di abeti e faggi. Sono le 20,30, il sole è ancora altissimo, il cielo è di un blu così denso che pare un mezzo solido. Sono contento.
A domani
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giovedì 5 novembre 2009

Sui sovrumani silenzi - da un corso a Tortona sul silenzio, di Giulio Mozzi


Il silenzio è sempre presente nei discorsi, se non altro perché se non c'è silenzio non si può parlare. In ogni caso, l'esperienza di prendere la parola viene vissuta come l'emergere sopra un rumore di fondo. Se ci si concentra su un suono, i rumori di fondo svaniscono. Il silenzio è un concetto relativo, perché di rumori ce ne sono quasi sempre. E' relativo anche in un luogo come la montagna: i rumori piccoli ci fanno sentire meglio il silenzio intorno a noi. Di notte in casa i piccoli rumori si notano di più.

Il silenzio è una componente fondamentale della narrazione come un non detto, essenziale in tutte quelle narrazioni che abbiano al centro un mistero, un giallo per esempio(sostenuto dalla "reticenza" dell'autore); il non detto è importante anche in una narrazione di fatti e niente viene detto su ciò che pensano i personaggi(esclusivamente narrazione di fatti), oppure in narrazioni in cui si sa tutto ciò che avviene nella mente del personaggio, ma paranoico e quindi dubitiamo - non appena ce ne accorgiamo - di ciò che lui pensa e racconta. Un esempio di quest'ultimo caso è il bellissimo romanzo di Volponi: "Memoriale"(tascabile Einaudi), una storia in cui c'è un operaio di una fabbrica, che i medici con scuse qualsiasi tengono lontano dalla fabbrica, per lui importante perché contadino(rappresenta per lui una specie di promozione sociale). Ma in parte le cose vanno come dice lui, in parte no, quindi diventa tutto confuso per il lettore.

Altri tipi di silenzio nella letteratura sono rappresentati dal silenzio della scrittura in versi: ad ogni riga della poesia corrisponde un pezzo di rigo che è bianco. Nei libri - di qualsiasi genere - le parole sono circondate da un bianco, che serve a dare consistenza e leggibilità al testo. Nei libricini Bur i vuoti sono piccoli, in altri, tipo i vocabolari, i vuoti sono importanti per trovare le parole. Vi dico una storia di un libro: un personaggio legge la bibbia e arriva in fondo, ci sono due pagine bianche; il personaggio pensa: che cosa dicono, che cosa raccontano? E’ possibile che venga taciuto all'improvviso un qualcosa?

Il tema del silenzio può sembrare paradossale perché scrivere significa rompere un silenzio ma può essere un buon modo per entrarci in modo un po' meno convenzionale. Ci può meglio rendere i limiti dell'espressione scritta o verbale.

Ora vi faccio sentire una musica di Brian Eno, musicista di rock progressivo, produttore degli u2. Il brano in questione è Neroli,[non ho trovato in rete altro che i primi 30 secondi NdR] una musica per pensare o pensante. Eno è l'inventore della "ambient music", utile per "arredare" gli spazi ma anche alcuni momenti della vita. Durante il pezzo si sono percepiti di più i rumori del traffico, i vetri che vibrano, i nostri rumori, il respiro, i colpi di tosse; l'esatto opposto della musica da supermercato, la cosiddetta "muzak". In alcuni ristoranti cinesi gira un solo pezzo musicale che ha la funzione di non far sentire i piccoli rumori. Ci sono studi di Schaffer che ha scoperto che i costruttori di grandi grattacieli, dopo aver fatto una serie di sforzi per ridurre i rumori degli ascensori che cigolano, e i rumori prodotti dal vento, hanno introdotto delle piccole dosi di rumore bianco, indistinto, hanno reso meno silenziosi gli ascensori, meno silenziosi i condizionatori, perché un minimo di rumore "aiuta" gli inquilini(hanno rilevato che gli abitanti dei grattacieli si sentivano a disagio).

C'è un altro silenzio che viene generato da una musica di questo tipo, c'è l'attesa di un qualcosa che dovrebbe succedere ma che non avverrà. Quest'attesa è una sorta di paradosso preromanzesco: nei veri romanzi qualcosa deve succedere(un omicidio o qualcos'altro). Nel novecento c'è un tentativo di ribellarsi a questo(La recherche di Proust, Ulisse di Joyce, Moby Dick - per certi versi - di Melville, Giacobbe di Thomas Mann, L'uomo senza qualità di Musil) romanzi talvolta inaffrontabili dal lettore, in attesa di un qualcosa che non avviene mai.

Musil scrisse L'uomo senza qualità I. Poi L'uomo senza qualità II ("le stesse cose ritornano"), L'uomo senza qualità III con capitoli disomogenei("verso il regno millenario" un periodo fuori dalla storia, con dio in terra, dove non avviene nulla, indicazione di non tempo). Poi morì con la testa incastrata nel cestello della lavatrice senza riuscire a organizzare e concludere il terzo libro.

La recherche funziona quasi allo stesso modo. Volumi infiniti, finché - quasi sempre - va a finire che l'autore muore. I Guermantes - terzo libro, il migliore - racconta di un tè per duecento pagine, e di altre duecento pagine una cena; poi il barone di Charleuse dà segnali all'autore omosessuale che riceve i segnali, si mette a fare il gallo, venti pagine conclusive quasi esilaranti.

Facendo un paragone in campo musicale, Beethoven è romanzesco. Presenta il primo tema, poi il secondo tema, i due temi entrano in conflitto, dialogano a tratti, si rincorrono, risolvono il conflitto: il tutto procede con tutta una serie di regole molto precise,è una specie di grande macchina. Poi nel novecento si prendono due direzioni: una, quella di Mahler, che ti crea una sinfonia di due ore e mezzo, dove ci mette dentro la musica del postino, il coro per bambini, ecc. Mahler produce macchine come le opere artistiche di Tingeli, delle macchine enormi che non servono a niente. Visivamente si può associare all'immagine del fiume in piena, un procedimento di accumulo dei materiali più disparati.

Altra direzione: compositori che fanno musiche piccole che fanno melodie corte, come Webern . Melodie corte, sfuggenti, dove non si riesce mai a prevedere che cosa dovrà succedere.

Tutto il contrario dell'album del matrimonio, una delle "narrazioni" più prevedibili; il fotografo attraverso il montaggio, sveltisce e dà un ritmo al racconto "matrimonio". Il montaggio genera un'attesa, dà la previsione della scena successiva. Adesso accade una cosa, si pensa, e nell'album del matrimonio accade. Le attese danno forma al tempo.

Se raccontiamo la nostra vita, dobbiamo selezionare gli eventi, dobbiamo raccontare in modo adeguato. Questo è ciò che rende godibile una narrazione e la fa diventare rumorosa, come se generasse attenzione intorno ad un evento.

John Cage ideò ed eseguì nel 1952 un brano (musicale?) dal nome "4'33". Il musicista in realtà non suonava nulla. Muoveva la panchetta, si sedeva, girava pagina dello spartito, lo sistemava meglio sul leggio del pianoforte, e così via, finché non erano finiti i quattro minuti e trentatré secondi; andava verso un'azione che non avveniva mai. Nella prima esecuzione ci fu un lancio di verdure. Nella seconda esecuzione ci fu un fulmine che squarciò il vetro di una finestra della sala(i maligni dissero che era la vendetta di Dio), in molti scapparono, lui richiuse con calma il piano e se ne andò. Nel 1977 Cage si presentò con un'opera in Italia "empty words". Tirò fuori dei foglietti e cominciò a biascicare parole - in modo incomprensibile - che erano l'ultimo capitolo dell'Ulisse di Joyce. Durò più di due ore, l'auditorio fece un putiferio incredibile, ma alla fine lui disse che era venuto proprio bene. E' stato alla la direzione musicale degli Area con Stratos, per qualche tempo ha collaborato anche con Finardi.

Le musiche di Eno hanno un potere dirompente come evidenziatrici di silenzio. Il silenzio - inafferrabile di per sè -comincia ad esistere quando c'è un confronto con un suono amico o un suono che cerca di sopraffare il silenzio, come il rumore bianco - si potrebbe visualizzare come una specie di muro - simile al rumore che sentiamo quando la radio non è sintonizzata su una stazione radio ben precisa, tutte le frequenze sonore si sovrappongono e si contrappongono in modo netto al silenzio. In certa pazzesca musica di film americano spesso si sente un centinaio di musicisti che suonano insieme, viene quasi un frastuono, come nel film "Uragano".

Ha senso, a questo punto, farsi una domanda: che cosa c'entra tutto questo con la scrittura? Tutto questo è una direzione di ricerca più ardua, è il tentativo di vivere la scrittura come momento silenzioso, di valorizzare le pause e gli spazi bianchi che essa contiene.

Prendiamo, per esempio "L'infinito" di Leopardi. Lui guarda la siepe, lo schermo che gli impedisce di vedere. E si immagina interminati spazi di là da quella. Il vento che ode stormire tra le piante gli dà la possibilità di comparare gli spazi, e il silenzio. In questa "smisuratezza" il suono produce una possibilità di comparazione.

Ci sono due possibilità di sentire la musica: o come sfondo, o come ascolto consapevole.

Esistono musiche dedicate a determinati ambienti: la musica per aeroporti - hall sterminate, soffitti altissimi, vetrate enormi - a cui si è prestato anche Brian Eno . Ci sono musiche per clientele specifiche, spesso non qualitativamente eccelse, come "radiorinascente". Mc Donald seleziona un disco che si ascolta per un mese di seguito.

Mimmo Palladino ha fatto "I dormienti" . Nella "Tube"(la metropolitana di Londra) c'è una sala antica rotonda che ha dodici accessi. Paladino ci aveva messo i dormienti (l'esposizione è durata sei mesi), statue adagiate su assi di legno poggiate sul ghiaino, e per terra c'erano minacciosi coccodrilli che parevano raggiungere questi dormienti dai vari accessi; Eno aveva elaborato una musica in cui dodici diverse sorgenti sonore - ciascuna in due altoparlanti - facevano sentire una melodia ricorrente, ripetitiva, ma leggermente diversa e sfasata nel tempo rispetto alle altre, e spostandosi di poco si aveva una percezione leggermente diversa dei suoni. Si stava a guardare le persone che dormono mentre fuori dai condotti ci sono i coccodrilli. Io sono stato in questo luogo per quattro ore. Si avverte questa minaccia, questa musica che non progredisce mai. Dentro tutti si muovono in un silenzio mai visto altrove, con il ghiaino che fa un lieve rumore. Le persone stanno lì per un tempo lungo, tempo medio dieci minuti, proprio per vedere cosa possa accadere, poi vedono che non accade mai niente e se ne vanno.

Il senso di minaccia è una citatissima battuta di Carver: la presenza di un senso di minaccia dà interesse al racconto, ma questa minaccia non si concretizza. L'ultimo racconto di "Vuoi star zitta per favore?" è la storia di due che devono sposarsi e vanno a vedere una casa, lei contenta lui dubbioso. Si intuisce che c'è qualcosa che non va, anche se volenterosamente si sforzano di essere la coppia perfetta, poi tornano a casa e l'ultima frase:" e lui si girava e si rigirava nel letto pensando al suo futuro" non rivela il senso di minaccia. Fermandosi prima, Carver compie un gesto di pietà: non vi porto fino in fondo tutto il meccanismo romanzesco, perché non ho voglia di innescarlo e do ai due la possibilità di non precipitare dentro alla crisi; non metto questi qua in un destino meccanico. Si potrebbero interpretare questi finali di Carver una profonda "passione per il silenzio" e "passione per la macchina", per i piccoli rumori che esaltano altri rumori; Carver con questi piccoli rumori fa sentire e può anche rendere intollerabile la versione romanzesca. A me[Giulio Mozzi] il romanzo non sta antipatico, ma ormai la totalità dei romanzi di intrattenimento hanno quel meccanismo; sono letteralmente spaventato quando vedo un film basato sui meccanismi narrativi completamente esibiti quarant'anni fa o uguali ai meccanismi ottocenteschi. Perché? Perché non si riesce ad andare oltre?

Con i romanzi fino ad una certa epoca si fa ridere, dopo si scopre che può far piangere, e vai con "Pamela", "Piccole donne" e "L'incompreso". Dopo un po' di tempo il romanzo comincia a deformarsi(extralungo), poi si verifica un'involuzione ed una sostanziale rinuncia al romanzo: il romanzetto da 170 pagine - tipo Pavese o Cassola - dove non esiste più l'intreccio romanzesco, non può starci dentro. "I fratelli Karamazov" ha - nell'edizione che ho io - 1208 pagine, e quello è un romanzo fatto come si deve.

Tornando al silenzio e al suono come esaltatore di silenzi o di rumori impercettibili: tra poco andremo a fare un esperimento al luna park, un luogo adatto o per film di pianto con luna park chiuso o per film di paura con luna park aperto e deserto con frastuono pazzesco. Ogni qual volta percepiamo una figura percepiamo uno sfondo. Tendiamo a privilegiare la cosa rispetto allo sfondo. Oltre ad avere primo piano e secondo piano(sfondo) - capita anche con la musica - c'è il campo; sono io stesso in una situazione medesima al primo e secondo piano, tutto l'ambiente in cui questi piani coesistono è il campo. Per qualsiasi cosa che sentiamo-vediamo-tocchiamo-saggiamo, noi abbiamo un punto di vista mobile, abbiamo un nostro personale approccio alla cosa(ho capito com'è fatto e mi faccio un'immagine mentale) e a partire da quel momento(dell'immagine mentale) cessiamo di rapportarci con l'oggetto. Motivo per cui succede di fare sbagli quando sovrapponiamo l'immagine mentale all'oggetto.

Esercizio: provare a eliminare i rumori principali e cogliere i più sottili suoni, seguirli e provare a sperimentare un modo non normale di percepire un luogo. Quest'attenzione può essere un modo per sentire quanti suoni è composto quel luogo. Ci vediamo in biblioteca tra quarantacinque minuti, buon luna park.

Gli eventi sonori sono difficili da descrivere, sono diversi dalle parole scritte.

"Un uomo pesa 120 kg" è una frase soddisfacente, mentre i suoni non appartengono alle parole scritte, ci sono parole aggiustate tipo "pipistrello" che è l'aggiustamento di vespertillus(animale che si muove quando fa buio).

Forse questo dei rumori è un problema insolubile, ma bisogna almeno pensarci su.

Calvino si esercita a far parlare un personaggio unicellulare attorno al quale non c'è ancora niente, e in cui non riesce a nominare niente.

La musica può produrre uno spazio.

Fripp si è recato nel salotto di Brian Eno, Fripp ha suonato a lungo e Eno ha registrato tutto. Poi ha cominciato a lavorare rimescolando e sovrapponendo. Ne è venuto fuori un pezzo discretamente lungo. Vi invito ad ascoltarlo come un suono che produce uno spazio, uno spazio che costruisce profondità, indefinito come altezza. Si ha la sensazione di essere immersi nell'acqua, come essere legati ad una cima gettata da una barca che ha dei limiti spaziali, ma che non si muove secondo schemi precisi.

"Lux eterna" di Righetti in "2001 odissea nello spazio", è cantata da un coro di voci maschili, che serve a trasportare il protagonista in una dimensione onirica con limiti vaghi dello spazio e del tempo.

Quando ascoltiamo stiamo attenti agli eventi, mentre non siamo attenti allo sfondo. Il suono continuo può essere affiancato ad un silenzio continuo.

Prendiamo il Petrarca: "chiare, fresche e dolci acque" è onomatopeico, un rumore leggero.

Un altro suono si trova più giù: "con sospir' mi rimembra"

In "aere sacro, sereno" ho un'aria immobile

Non c'è più nessun suono.

Alla quarta strofa piovono fiori ma anche qui senza nessun suono.

C'è una smaterializzazione di Laura che viene prodotta attraverso il silenzio, un profondissimo silenzio.

Il movimento attraverso acqua-albero-terra non mostra Laura

Il silenzio rappresenta la musica celeste prodotta dal movimento dei sette pianeti, secondo una ipotesi; secondo un'altra è il rumore bianco dell'esperienza, nel quale si mescolano tutti i colori, che quindi diventa indistinto. E' indescrivibile il suono dove ci stanno dentro tutti i suoni. Ci si sposta sempre tra un perfettamente indistinto, la musica celeste, il corrispettivo di una folla che parla a bassa voce(il huhaha de la marmaglie) e il silenzio assoluto.

E' impensabile pensare oggi platonicamente che ci sia un luogo dove stanno le idee.

Ci si muove tra idea ed esperienza, tra questi due estremi. Si prende il rumore bianco e si filtra. Quando, in altre parole, rompiamo il silenzio e parliamo, rompiamo il rumore bianco e cerchiamo di mettere dei filtri all'esperienza. Ogni parola, con il nominare, è un rompere il silenzio.

Il silenzio non è uno stato naturale, ci sono una serie di lavori per ripristinarlo artificialmente. Anche in cima ad un monte c'è tutta una serie di condizioni artificiali per arrivarvi. In posti poco antropizzati ci sono una serie di rumori che comunque esistono. Il rumore degli insetti può essere noiosissimo. A Pantelleria ho trovato tutta una serie di rumori. C'è il silenzio della desertificazione naturale. Anche un bosco silenzioso è una condizione artificiale, spesso dovuta all'eliminazione delle specie animali prodotte dall'uomo.

C'è un'idea utopica di silenzio nei boschi, in realtà i ramagli del bosco spostati dal nostro cammino, gli insetti che ronzano, il volo e i versi degli uccelli, animali più grossi che si spostano tra gli alberi, sono continuamente presenti.

Ora faremo un esperimento con una poesia senza pretese che ho composto per l'occasione. [primo foglio con tante righe lunghe quanto le parole che cancellano, eccetto la prima parola "amore" che è visibile]la parola amore apre un campo enorme, la parola sloggia[ nel secondo foglio si vede l'ultima parola in chiaro della terza ed ultima strofa "sloggia"] limita un po' il campo e dà una deviazione di percorso, è più aggressiva. La rottura del silenzio, l'emergere delle parole in un testo criptato è la creazione di una apertura e pian piano - con l'arrivo delle parole successive - comincia a restringersi, è una specie di imbuto. Rompere il silenzio, progredire in questo imbuto significa applicare dei filtri al rumore bianco. Io agisco con un filtro.

"Amore" o "sloggia" sono entrambi dei termini ampi(sloggia molto meno di amore, in realtà) e paiono dare informazioni grosse, ma sono di per sé vaghe, e l'imbuto rimane largo."sembra"[parola presente nel terzo foglio, all'inizio della terza strofa] veicola poche informazioni e quindi dà una strada. Quarto foglio, ultima frase della seconda strofa : "Conservi tu le tracce?" dà una prevedibilità delle due corte parole immediatamente seguenti che sono ancora non visibili: "Io no." Le parole più importanti sono quelle meno indovinabili. Tanto più inserisco parole meno prevedibili, tanto più spiazzo, ma tanto più indico una strada.

Al quinto foglio distribuito da Giulio, appare tutta la poesia:


Amore, a quali giorni

si attacca il tuo ricordo,

il gioco del ritorno

di un tempo che mai dorme?


Del giorno che è comune

a me e a te, che uno

di due destini fece,

conservi tu le tracce?


Io no. Mi sembra un sasso

di fiume, tondo e liscio,

il mio cervello, oggi:

e l'ansia sta, e non sloggia.


"Sloggia"era stato da molti interpretato come una seconda persona singolare dell'imperativo, quindi più brusco e violento di come in realtà viene usato.

Il termine "Amore" utilizzato in senso vezzeggiativo, per rivolgersi ad una persona, perde un po' del grande significato ideale che molti si erano immaginati per questa poesia(come il famoso attacco dantesco "amor che a nullo amato amar perdona...").

Il modo di declamare è l'impaginazione vocale, una serie di segni che organizzano il testo.

Quando leggiamo il testo in versi, in prima lettura non ci poniamo il problema degli "a capo". Il fatto che ci siano termini scritti in maniera diversa, più o meno evidenti, può dare un aiuto per il modo di declamare una poesia.

Come ha fatto Mallarmè in "Un colpo di dadi non abolirà mai il destino". La stessa persona ha fatto forme aperte e chiuse. Per comporre forme libere, bisogna aver studiato molto bene quelle chiuse, compresi gli endecasillabi.

"La biblioteca di babele" di Borges contiene tutti i libri possibili, tutte le combinazioni di lettere e spazi, costruiti casualmente e anche casualmente i grandi testi della letteratura scritti e ancora da scrivere. Se un testo è scritto da un computer non è detto che sia brutto perché è stato scritto da una macchina, non ci possono essere pregiudizi perché è stato scritto da una macchina, io ho solo il testo scritto e posso dare esclusivamente dei giudizi sul testo, quindi poco importa - per quella lettura - sapere le intenzioni dell'autore.

Non appena le parole escono dalla routine diventano problematiche, perché non si riesce a dare un senso. Possiamo mettere la parola "sasso" e non c'è scampo, mentre la parola "amore" può assumere molti significati.

Le parole possono essere polisemantiche, avere cioè un'ampia gamma di toni, le parole univoche sono pochissime.

Le parole sono comunque governabili e traducibili, in questo caso i vuoti sono difficilmente governabili e traducibili. I vuoti da tradurre danno un grosso problema interpretativo, anche ai fini della dizione della poesia.


Esperimento di riorganizzazione della poesia "L'infinito" di Leopardi. Tutti i partecipanti si sono cimentati.

Esempio di riorganizzazione

Sempre caro

mi fu

quest'ermo

colle

e questa

s i e p e

che da tanta parte dell'ultimo

o r i z z o n t e

il guardo esclude.



Ma

sedendo e mirando,

interminati spazi di là da quella,

e sovrumani

silenzi,

e profondissima

quiete

io nel pensier mi fingo;

ove per poco il cor non si spaura.

E come il

vento

odo stormir tra queste piante,

io quello infinito

silenzio

a questa voce vo comparando:

e mi sovvien

l'eterno,

e le morte

stagioni

e la presente e viva,

e il

suon

di lei.


Così tra questa

immensità

s'annega il pensier mio:

e il naufragar m'è dolce in questo

m a r.


[Il sonetto tende a realizzarsi, è un discorso breve. E' possibile dimostrare che l'organizzazione del sonetto si può ricondurre a 4-5 modelli ben definiti. Leopardi non ha mai scritto un sonetto.

Gli a capo non cambiano la forma del verso, ma cambiano l'organizzazione logica della poesia.

Viviani poeta introduce in una sua poesia: "sedendo e stirando"]

Commento di Giulio sull'esperimento fatto:

nelle scomposizioni della poesia "Infinito” si è cercato di puntare su singoli membri del testo, in particolare i sostantivi.

Tutti quelli che hanno fatto quest'operazione hanno isolato le parole con un vuoto intorno.

Un'altra direzione è stata la sintetizzazione riducendo il testo a meno parole cercando di acchiappare il nocciolo di una questione. Difficile per una poesia come questa, comunque produce l'effetto di passare ad una pagina in cui ci sono poche parole e tanto bianco intorno.

I testi di Ungaretti che sono scarni meritano la pagina bianca tutta intorno.

I testi aperti di Mallarmè – tipo "La fontana" - devono essere liberati da note e numerazioni per essere apprezzati.

Le poesie minime di Ungaretti sono la prova dell'esistenza in vita di un desiderio di spazi.

E dovrebbero essere lette con lentezza, con la stessa durata che la lettura di una pagina di prosa richiederebbe.

I libri di poesie dovrebbero essere letti dall'inizio alla fine - non saltabeccando - per capire l'organizzazione degli spazi concepita dall'autore per ciò che concerne quella ben precisa produzione di poesie.

C'è una sorta di immaginazione spaziale per organizzare un libro che dovrebbe essere rispettata dal lettore.

Umberto Eco ne "Il nome della rosa" ha cercato - a suo dire - di dare le prime quaranta pagine più noiose possibile nel tentativo di selezionare lettori "tosti".

In “L’Allegria", Ungaretti è arrivato all'ultima edizione del libro con molti tagli, un testo più bello ed efficace dei precedenti.

Mi interessava svegliare l'attenzione rispetto al vuoto che circonda ogni singola parola.

Se il tema interessa, potreste leggere: "Riscoprire il silenzio", una raccolta di saggi curata da Nicoletta Polla-Mattiot sul silenzio, Ed. Baldini e Castoldi.

(Toni La Malfa)


giovedì 29 ottobre 2009

Viaggio in Scozia 4 - L'isola di Skye, ovvero un naufragio nella bellezza





Da ragazzo disegnavo spirali. Grandissime. Con anse che tornavano improvvisamente indietro, descrivevano percorsi tortuosi e rettilinei, e protuberanze, e budelli, e diverticoli, e villi e onde. Occupavano un foglio intero, il tempo di una spiegazione di una storia detta male e senza amore, che si trattasse del congresso di Vienna o dell'età giolittiana; tanto quell'anno sarebbe uscita filosofia - e non storia - come materia d'esame, questo era ciò che tutti pensavano. E io lì a percorrere chilometri di penna, lontano dalla classe, libero di esplorare il foglio come desideravo. C'erano solo un paio di regole da rispettare. La prima: non dovevo toccare o incrociare il tratto di penna già creato, e - regola numero due - ad un certo momento dovevo tornare indietro, ripercorrere la lunga strada per ricercare il punto di partenza e chiudere il percorso, creando una zona interna e una zona esterna al disegno. A quel punto mi concentravo verso un qualsiasi punto nella zona centrale del disegno, e - se il disegno era ben fatto - mi trovavo nell'impossibilità di capire se ciò che stavo vedendo era una zona interna o esterna, bianca o nera. Per saperlo dovevo idealmente percorrere un labirinto che mi avrebbe condotto all'uscita, fuori del disegno, o mi avrebbe per sempre imprigionato dentro questa elaborata spirale. Insomma, mi piaceva confondermi, perdere il senso di orientamento, scoprire con gran difficoltà se mi trovavo a contatto con l'uscita o dentro una massa filamentosa(che in seguito, se la spiegazione dell'insegnante si fosse dilungata, sarebbe stata riempita di penna bic). Ho provato questo stesso confondimento mercoledì dieci giugno 2009 nell'isola di Skye. Davanti a me vedevo strisce di terra e acqua. E io mi trovavo nell'impossibilità di sapere se quell'acqua fosse lago o fiordo, se quella terra fosse Skye o un'isola antistante, se stessi andando verso ovest o est(in quel momento non c'era sole). Mi sentivo piacevolmente alla deriva della strada che curvava improvvisamente a gomito, che mi faceva andare in senso opposto rispetto alla direzione prevalente del viaggio. E intorno a me colline, avvallamenti del terreno, monti e crepacci tappezzati di mille tonalità di verde che andavano a morire nel blu turchese di quell'acqua gelida. Desideravo perdermi, più di quanto lo fossi in quel momento a duemilacinquecento chilometri da casa mia. E a più riprese, quel mercoledì dieci giugno stavo annegando nella bellezza.
Ho dormito a Broadford, il primo paese che trovi nell'isola di Skye venendo dal ponte che collega alla terraferma. Stamani un pensiero positivo mi accoglie uscendo dal bed and breakfast: niente borsoni, solo uno zainetto da legare alla bici, visto che stasera tornerò a dormire qui. Il vento, un vento fresco e intenso mi accompagna fin dalle prime pedalate. L'isola di Skye è un avamposto dell'Europa del nord; se guardi il mappamondo ti accorgi che dall'America a lì non c'è nient'altro che il fresco dell'Oceano(che a quella latitudine, la stessa del Labrador e di San Pietroburgo, la Scozia è miracolata dalla corrente del golfo); l'aria dell'Oceano è quello stesso vento che rende inaffidabile qualsiasi previsione metereologica: pioggia, sole, caldo, freddo, nuvole a tutta velocità, una specie di giostra. Mi fermo ad un supermercato a fare scorta di acqua e kit-kat.
Dopo pochi minuti di bici, le case sono finite e la strada piega all'interno, insinuandosi in una gola circondata di bosco. Il verde prevalente è lo smeraldo, qui e adesso. Salgo, scendo, ritorno a costeggiare il mare sulla mia sinistra. Vedo Scalpay, un'isola collinare e boscosa molto vicina alla riva - pare quasi di poterci andare a nuoto - che con Skye contribuisce a creare uno stretto braccio di mare. La strada segue adesso fedelmente il profilo tortuoso della costa.
Ora si ripiega verso l'interno, ma ciò che vedo oltre la riva non è più un'isola, bensì l'altro lato di uno stretto fiordo, chiamato Loch Sligachan. Lo percorro tutto - intanto il vento si è disciolto per la protezione di isole e rientranze profonde - e mi arriva uno scenario indimenticabile. Il mare pare un lago, sbarrato da scogli e isole, l'erba di mille tonalità muore nell'acqua - anche le colline circostanti vi cascano dentro - e sullo sfondo opposto al mare vedo una catena montuosa, The Cuillins. Mi fermo a fare qualche foto, a mangiare cioccolato, a respirare.
Sono felice di essere qui.
Proseguo adesso in un paesaggio lunare, la strada sale e si insinua tra due monti. Piove ed esce il sole; quando esce il sole ti sembra che ci sia sempre stato, il blu è intenso e la disposizione delle nuvole in continuo cambiamento è un valore aggiunto al paesaggio. Nessun centro abitato. C'è un'alternanza tra prati, torbiere, qualche bosco per una ventina di chilometri - ne ho percorsi 40 da Broadford - fino a raggiungere Portree, fino a ritrovare il contatto con il mare. C'è una piazza con qualche bar, molti turisti, un corso che fa da spina dorsale del paese, fino ad un'altra piazza, e tutt'intorno molte casette con tetto in ardesia e giardino che si sviluppano su stradine tortuose; l'intero centro abitato è arroccato su una collina che si affaccia su un porto al riparo dai venti. E se non bastasse l'insenatura naturale, un'ulteriore protezione è data da un'isola - Raasay - distesa a cuscinetto tra l'isola di Skye e la Scozia. Mi fermo a mangiare un panino e una coca piuttosto in fretta, perché temo l'avvicinamento di una nuvola dal colore minaccioso e prendo una stradina, la B 885 che congiunge la parte est con la parte ovest dell'isola. La strada sale dolcemente attraversando un bosco. Dopo pochi minuti mi suona una macchina dietro di me: è la prima volta da quando sono in Scozia che qualcuno mi strombazza, sono un po' irritato, mi metto sull'estremo bordo sinistro(qui si tiene la sinistra) della stradina. Si affaccia un signore da un finestrino, è sorridente, mi fermo. Si ferma. "Hai perso questa", mi dice e mi mostra il lucchettone a spirale che mi era scivolato dallo zainetto. Ringrazio di cuore e saluto. Rifletto sull'accaduto: quel signore, incrociandomi, aveva visto cadere il lucchetto, si era fermato, aveva recuperato il lucchetto, invertito il senso di marcia e mi aveva raggiunto. Non so, per un attimo mi pare che certe cose avvengano solo qui.
Poco prima del valico della strada, vedo un'aquila a una ventina di metri da me che si alza in volo. Mi fermo imbambolato e seguo per qualche minuto i suoi avvitamenti a spirale sempre più alti; è diretta verso un vicino monte, provo invano a fotografarla. Ho la sensazione - piacevole, per niente inquietante - di essere solo come quell'aquila.
La discesa mi conduce al versante ovest dell'isola: altro mare, promontori, uno stretto fiordo - loch Harport - , sullo sfondo il sole e i suoi riflessi. La strada ora piega verso sud, e mi consente di vedere ed avvicinarmi a delle aguzze montagne intorno ai 1000 metri - piuttosto rare da queste parti - dai riflessi rossastri, The Cuillins. Percorro tutto il fiordo, la strada piega verso est fino a raggiungere, nel punto più stretto dell'isola, loch Sligachan, il fiordo che avevo attraversato stamattina. Qui il paesaggio è aspro, probabilmente i venti in questa parte dell'isola non consentono una fitta vegetazione. A tratti, in modo improvviso e inaspettato, vengo colto da emozioni intense. Sono le sette e mezzo di sera, ora comincia una pioggia insistente; dal cielo plumbeo si affaccia qua e là qualche chiazza di sole. La pioggia non mi dà alcun fastidio, sarà l'euforia della giornata, comunque ripercorro i venti chilometri che mi riportano a Broadford con un brio e una gioia infinita. Mi attende il B&B, una doccia, il ristorante con il tramonto alle dieci e mezzo passate.
Ritorna il sole, pare inchiodato nel cielo.
A domani
(Toni La Malfa)
Continua a leggere Viaggio in Scozia-5

mercoledì 21 ottobre 2009

Sono l'ultimo a scendere, di Giulio Mozzi


Nel sito Bottega di lettura ho scritto una recensione sull'ultimo libro di Giulio Mozzi.
Se vi interessa, potete cliccare qui.

domenica 11 ottobre 2009

Viaggio in Scozia 3 - Verso l'isola di Skye, verso l'Oceano






















Lochcarron, martedì nove giugno, le otto di mattina.
Mi aspetta la colazione in una sala dallo stile vittoriano, con una finestra che si affaccia sul prato, sul lago, e sul monte. Una finestra sul mondo. Lo capirò, strada facendo - no, no, in questo viaggio è meglio non parlare di strada in senso metaforico - lo capirò nel corso di questa settimana, che qui in Scozia c'è una specie di culto delle finestre del soggiorno: trine, fiori, vasi, e al di là di esse, dei fiori che dialogano con quelli all'interno. Gli altri ospiti del B&B non sono ancora scesi. Silenzio, l'unico rumore in sala è prodotto dalle mie posate che stridono sul piatto. Il padrone di casa mi rifornisce continuamente di fette di pane appena tostate che mi accompagnano le uova, le salsicce, i fagioli, la pancetta, il burro e le marmellate. Il bello della bici è che arriverò a sera avendo smaltito ogni singola caloria di questa colazione.
Mi trovo sul lungolago, sto percorrendo a ritroso Lochcarron. C'è poca gente in giro. Due pulcinelle di mare - uccelli dal becco grande arancione e dall'occhio triste - beccano qua e là sulla riva. Intravedo a metà monte, seguendo la tortuosa traccia visiva di un solco nel verde - una piccola strada, una casa e un filo di fumo. Mi domando come si possa vivere lì in inverno con il ghiaccio, la neve, qualche ora di luce, e infine mi rispondo: forse molto meglio lì che in prossimità del raccordo anulare di Roma. Arrivo fino al bivio, dopo circa dieci miglia, che mi obbligherà a percorrere il lago sulla riva opposta, e vedo passare un treno tutto lucido, verniciato di rosso bordeaux, che funziona a carbone. E' bellissimo, anche il rumore che produce; più tardi verrò a sapere che è il Royal Scotsman, un lussuoso treno di queste parti simile all'Orient-Express.
Mi trovo adesso sulla riva opposta del loch Carron e comincia a piovere, una pioggia fine, che non dà grandi fastidi. Il fastidio è invece provocato da una inaspettata salita al 14%, per fortuna non va oltre il chilometro; non riesco a capire perchè la strada non potesse essere costruita lungo il lago, forse ci sono degli inaccessibili costoni di roccia, fatto sta che in pochi chilometri, di queste ripide salite - e anche discese - ne troverò almeno cinque. La strada infine abbandona il lago e si addentra, con una salita lieve e costante, in un promontorio vista lago, composto prevalentemente da un fitto bosco di vegetazione alpina. Abeti e larici, colori intensi, accompagnati dal blu del cielo tornato improvvisamente sereno.
Raggiungo la sommità di alcune colline che tagliano il promontorio; da qui la vista è impressionante: il lago si trasforma in fiordo, e sullo sfondo c'è la mia meta di oggi, l'isola di Skye, e altre isolette più in là. Ora si scende con decisione, fino a Kyle of Localsh. E' un paese carino, forse un po' troppo cementificato, che rimane impresso più che altro come il punto di passaggio per l'isola di Skye, molto vicina, tanto che si raggiunge con un ponte a campata unica. Quando stai nel mezzo del ponte, il mare è a un centinaio di metri sotto, le vertigini sono in agguato. Nel momento in cui l'attraverso, un forte vento mugola sui piloni e gli scogli intorno sono costantemente schiumati di onde. Sono adesso sull'isola di Skye, una delle più rinomate isole al mondo. Sono emozionato, domani ne percorrerò un anello parziale lungo la sua costa. Faccio circa quindici chilometri attraversando un bosco, raggiungo Broadford e perdo circa un'ora per trovare un posto, un B&B con vista mare. Sono le otto e mezzo, con il sole ancora abbastanza alto nel cielo, quando entro in un ristorante dove ordino una zuppa di pesce, arrosto di salmone e Guinness. Trovo due italiani di Vicenza con cui scambio quattro chiacchiere: loro stanno girando in moto l'Irlanda e la Gran Bretagna ad un ritmo di 500 chilometri al giorno. Preferisco la bici, non ho dubbi.
Quando esco sono le dieci. Passeggio, vedo il sole che cala nel mare, poi il tramonto continua per un bel po' grazie ad una grande nuvola di passaggio che ruba la luce e la scena alla nostra amata stella. Davvero un bel vedere.
A domani
(Toni La Malfa)

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mercoledì 30 settembre 2009

Viaggio in Scozia 2 - Coast to coast





In partenza. Quella vera, intendo. Quella sulla bici, in Scozia. Sono a Inverness, che bagna il fiume Ness, emissario del celeberrimo lago. Tra sistemare i bagagli, montare la bici e fare colazione parte un sacco di tempo, e finalmente alle dieci e quaranta di lunedì otto giugno sono in sella. Rotta a nord-ovest. Non piove e ci sono quindici gradi, è una buona notizia, soprattutto se penso al tempo infame del giorno precedente: pioggia, vento, freddo(anche se non è detto che non ritorni, ovviamente). Menomale che ieri viaggiavo in autobus, anche se questo "menomale" potrebbe essere detto dalla volpe che non arriva all'uva. Prima di portarvi idealmente in giro sulla canna della mia bicicletta, ricapitolo brevemente ciò che è successo tra il sabato e la domenica: parto da Pisa, arrivo a East Midlands in ritardo. Mamma, ho perso l'aereo per Inverness; prendo due bus che mi fanno attraversare una buona parte della Gran Bretagna nel suo asse lungo, circa ottocento chilometri in direzione nord, arrivando a Inverness. Del viaggio in autobus mi è rimasto un impasto di sensazioni: grande stanchezza, alternanza di sonno e veglia, un'infinità di colline, l'attraversamento silenzioso di Edimburgo all'alba, gli enormi tergicristalli che si muovono in sincronia con i battiti del cuore, la grande varietà di gente che sale e scende dall'autobus: studenti che ricominciano la settimana a Edimburgo, lavoratori pendolari della settimana che lavorano in grandi centri urbani a centinaia di miglia da casa, pochi turisti, alcune donne sole con la borsetta sulle ginocchia. La maggior parte di questi passeggeri rimane in silenzio, e chi ha compagnia può appoggiare la testa su quella del passeggero accanto; è anche interessante osservare la lenta processione mattutina verso il bagno situato in fondo all'autobus. Tutti questi visi mi ricordano che qui, soprattutto nelle grandi città, la multirazzialità è un problema superato. E' così bello osservare la diversità tra visi, capelli, corpi, abbigliamento, cogliendo l'occasione di poterli guardare in uno stato di abbandono, un cocktail di sonno e stanchezza. Ognuno di noi è così diverso, eppure in fondo ognuno di noi cerca più o meno le solite cose nella vita, mi viene da pensare un po' banalmente.
Arrivo ad Inverness all'una di domenica dopo quasi un giorno di viaggio. Piove. Non voglio complicazioni oggi, desidero un comodo letto di albergo. Trasporto il mio borsone e gli zaini in una pensilina, chiamo un taxi perché non ho voglia di mettermi adesso a montare la bici. Raggiungo un bell'albergo, per oggi mi merito qualche comodità in più. L'albergo è dotato di piscina interna. Dopo aver portato i bagagli in camera - borsone della bici compreso, ip ip urrà per l'ascensore capiente - mi precipito in piscina e faccio lentamente a nuoto avanti e indietro per mezz'ora fino a raggiungere un profondo rilassamento. Poi salgo in camera, vorrei uscire subito per mangiare, ma mi stendo un attimo sul letto e riapro gli occhi dopo tre ore. Esco. La pioggia ha lasciato il posto ad un forte vento. L'albergo è in centro, Inverness è molto carino. Ci sono alcune case nel corso principale risalenti al quattordicesimo secolo, poi un castello arroccato sulla sommità di una collina, purtroppo contiguo ad una orrenda costruzione, forse un palazzo delle poste, che ricorda l'architettura dei paesi dell'est pre-1989.
Mi fermo in un ristorante dal design moderno dove mangio una bistecca ed insalata, faccio una passeggiata. Ho ancora fame, mi fermo nell'immancabile mac donald a prendere filetto di pesce. Poi mi viene sete e mi fiondo a bere una guinness in un locale pieno di giovani che non sanno ancora come butta la domenica sera. Quando torno sono le dieci meno un quarto, e il sole - ora visibile all'orizzonte - sembra inchiodato nel cielo: tra tramonto e luce crepuscolare si arriva quasi alle undici.
Mi metto a scrivere in albergo questi appunti di viaggio, e finalmente dormo in un letto, riuscendo - sono uno specialista in questo - a fare tardi. Tardi come la mattina successiva, quando - lo stavo raccontando prima di perdermi in queste digressioni - è cominciato il mio viaggio vero, quello in bici.
Dunque: sono le dieci e quaranta di lunedì otto giugno, e comincio il mio viaggio in cui dovrò costantamente tenere la sinistra. Il vento c'è anche stamani, spira trasversale alla strada. Il paese muore all'improvviso, costeggio per i primi chilometri il mare-fiordo che sembra lago o fiume, e il confondimento è una bella sensazione. Ritornano le nuvole, e come la strada si discosta dall'acqua cominciano colline tappezzate di boschi; la strada piega a gomito verso nord, non si allontana tanto dalla costa, e dopo una trentina di chilometri piega verso ovest, verso le Highlands. Se prima mi pareva di attraversare posti deserti, adesso la sensazione è ancora più forte. Non si vede traccia umana, a parte qualche raro cartello stradale. Una cornacchia mangia un cadavere di un animale, anche se arrivo a un metro e mezzo di distanza non le faccio alcuna paura e così la cornacchia continua tranquillamente il suo pasto.
Le pendenze non sono forti, e intorno non c'è altro che pascoli con pecore alternati a boschi. Nonostante sia giugno, in vetta ai monti che ti sovrastano a destra e sinistra della strada si vedono delle placche di ghiaccio e neve.
Silenzio.

Poi l'emozione di un'aquila che tramite una corrente ascensionale si avvita nel blu cobalto, uno sprazzo di cielo rubato alle nuvole che vanno di fretta. Le Highlands che avevo come idea-concetto sono davanti a me. Comincia a piovere. Drive carefully è il segnale di arrivo in un centro abitato, Garve, dove trovo solo case a destra e sinistra della strada, nemmeno un pub, sono costretto a nutrirmi di Kit-kat e acqua. In prossimità della stazione ferroviaria di Garve faccio conoscenza con Andrew, scozzese ma residente vicino a Londra, anche lui in bicicletta, che sta consultando gli orari per proseguire in treno, direzione Inverness. ora piove con maggiore insistenza, ci salutiamo. Per trenta chilometri non trovo nemmeno una casa, solo boschi. Incrocio di rado qualche macchina, la strada va a saliscendi, ma niente di terribile. Un capriolo sul ciglio della strada, pare che si riposi, ma ha gli occhi aperti, mi guarda? No. E' morto, probabilmente investito da un'auto. Mi fermo a guardarlo. L'agonia dev'essere stata brutta, con gli occhi rimasti aperti, un fermo immagine fino alla dissolvenza; ma poi quale agonia può essere piacevole? Raggiungo Achnasheen, tre case tre di numero. Speravo di trovarvi un B & B o un albergo, niente. Mi fermo in una sala da tè, prendo un caffé lungo e due fette di torta di mele, come lo sceriffo amico della signora in giallo. Il proprietario mi chiede qual è il periodo migliore per visitare la Toscana. Aprile-maggio, settembre-ottobre, rispondo, e gli do qualche dritta su Lucca, Pisa, Firenze. Sono costretto a proseguire, mi manca ancora un letto per stanotte. La stretta valle costeggia il fiume Carron, che più tardi si tramuterà in lago e poi fiordo. Sul limitare di un bosco, a qualche centinaio di metri da me, vedo alcuni cervi che pascolano tranquillamente. Ora discesa a capofitto, strada stretta a una sola carreggiata, fino a raggiungere alle otto di sera, dopo 106 chilometri, un paesino sulla riva nord del lago. Il paese, Lochcarron, è davvero carino, casette variopinte, giardini molto curati, e una vista mozzafiato sul lago e sul monte della riva opposta. Trovo un accogliente B & B, doccia, e riprendo la bici per raggiungere un ristorante a bordo lago. Rientro in camera - riscaldamento acceso, ci sono 11-12 gradi fuori - alle undici, è ancora giorno, anche se il cielo coperto non consente di godere del tramonto.
Sono un po' stanco, ma penso con soddisfazione di essere partito stamani dal Mar del Nord, di aver attraversato le Highlands, per finire sul bordo dell'Oceano.
Un piccolo coast to coast, insomma.
A domani
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mercoledì 9 settembre 2009

Viaggio in Scozia 1 - Nella notte


L'inizio dei miei viaggi in bici è spesso caratterizzato da ostacoli e difficoltà. In Corsica, dopo soli due chilometri di bici nel centro di Bastia, entrai per sbaglio nel tunnel sottomarino lungo un chilometro con le auto che, in penombra, ti sfrecciavano accanto a 80-100km l'ora. In Provenza ritardai la partenza di circa tre ore, c'erano dei problemi di salute a casa, per fortuna poi velocemente risoltisi. A Biarritz, all'inizio del camino di Santiago, imboccai e percorsi per tre chilometri la strada sbagliata, una Nazionale trafficatissima che andava verso San Sebastian invece della strada per St.Jean Pied de Port. In Sicilia dopo cento metri di pedalata sbattei sulla sbarra del parcheggio dell'aeroporto di Ragusa con relative escoriazioni una gamba e un braccio.
Ho idea - un'idea da psicologo de noantri - che tutto questo sia legato alla mia nascita, sono "figlio di Ogino-Knaus" e perlomeno nei primi mesi di gravidanza, e forse un pochino anche alla nascita non sono stato desiderato; questo può far sì che le nascite di viaggi e iniziative e attività non mi trovino sempre pronto, aperto ed accogliente. E così è stato anche per questo viaggio, iniziato come una vera Odissea.

Sabato 6 giugno 2009, mattina. Tutto questo fa parte del viaggio, anche se sono ancora a Lucca. I bagagli preparati all'ultimo giorno e momento - non so perché sia successo - che invece richiederebbero ben altra attenzione. Devi preparare con accuratezza gli zaini, pensare all'essenziale che ti devi costantemente portare dietro come una chiocciola; sono i tuoi muscoli a portarli, il tuo ATP e i tuoi zuccheri a bruciare energie, senza delegare lo spostamento ad un qualsivoglia motore a scoppio o elettrico. Una operazione delicata, insomma, soprattutto se devi andare in Scozia dove ti occorre il più variegato abbigliamento, dove la professione di metereologo è densa di imprevisti quanto quella di un alpinista sul k2. Finisco alle tre e mezzo in un bagno di sudore, mi precipito all'aeroporto di Pisa con la macchina, arrivo in tempo ma con il disturbo di fondo della frenesia, legata alla paura di trovare casino in autostrada tra Lucca e Pisa. Arrivo con il gigantesco borsone contenente la bici, i miei due zaini messi insieme in un sacchettone di tela(per risparmiare il costo di un bagaglio, sì, lo confesso), il mio zainetto nero alias bagaglio a mano. Faccio in tempo a fare il check-in, che risulta essere sempre più laborioso del normale, avendo appresso il borsone con la bici al suo interno. File, poi ritardo alla partenza. La cosa mi innervosisce, perché devo cambiare aereo a East-Midlands per raggiungere il nord della Scozia, Inverness. Durante il viaggio dormo, arrivo all'aeroporto East Midlands alle 18,45 con un ritardo di trenta minuti. Sto in attesa dei bagagli, che arrivano abbastanza in fretta, ma è tardi. Il check-in per ripartire per la Scozia chiude alle 19. Carico i bagagli sul carrello e corro verso il settore partenze, un altro edificio. Sono le 18,59 e penso: devo fare due file, una per la bici(allo sportello Oversize Luggages) e l'altra per gli zaini. Decido di andare allo sportello per la bici. Errore. Mi accettano il borsone, ma per gli zaini non transigono, occorre andare all'altro sportello. Che si trova in un altro salone. Corro. Ore 19,01, lo sportello per il check della Ryanair è già chiuso, una puntualità terribile. Non so che fare. L'aereo partirà tra meno di mezz'ora e ho due zainetti in mano, in aggiunta a quello consentito che ho sulle spalle. Totale: tre bagagli a mano invece di uno, e per giunta la bici è stata già destinata all'imbarco nella stiva dell'aereo. Faccio finta di niente e imbocco ugualmente la serpentina che mi porterà al controllo rx dei bagagli. Tocca a me. Appoggio gli zaini sul nastro, e ovviamente al di là del macchinario a raggi x mi attendono al varco due addetti alla vigilanza con lo sguardo truce. Uno dei due, una signora, mi dice in inglese: "Apri questi zaini". Mentre obbedisco, comincio a spiegare che a causa del ritardo dell'aereo proveniente da Pisa bla-bla-bla ...ma la signora e il signore cominciano a togliere con atteggiamento plateale, attirando l'attenzione di altri passeggeri che mi scrutano come fossi un terrorista, il seguente arsenale bellico: cacciaviti, camere d'aria(ma la pericolosità dove sta? nella valvola?), una pompa, un rasoio, le forbici, alcune chiavi esagonali, una pinza, il rasoio, la schiuma da barba, un filo d'acciaio del freno, una matassina di fil di ferro, nastro isolante, l'attrezzo per riunire le maglie di una catena di bicicletta, il rasoio, una lametta di ricambio,la schiuma da barba, l'autan, e altro, altro, altro ancora. Una catasta di oggetti. Loro mi guardano con fare interrogativo, e io dico loro che possono gettare via tutto, l'importante è che mi facciano partire. Prendo i miei tre zaini, loro depongono il tutto in una specie di secchio e proseguo il mio viaggio verso il gate dell'aereo, cercando di calcolare quanto possa costare quella montagna di roba a cui ho eroicamente rinunciato. Mi metto in fila con i documenti e i miei zaini. Sto per porgere il mio documento di viaggio e la carta d'identità alla impiegata Ryanair, ultimo ostacolo prima dell'imbarco, quando un solerte addetto alla sicurezza della compagnia di volo si avvicina e mi dice che io non posso partire perché ho tre bagagli a mano invece di uno. Io comincio a dire del ritardo da Pisa bla-bla-bla, ma lui non mi guarda nemmeno e dice seccamente che questo è il regolamento. Indico alri passeggeri con sacchettate di roba del duty-free oltre al loro bagaglio, ma lui non mi ascolta. Allora dico: ok, rimango a terra, ma io voglio la mia bici che è già imbarcata nell'aereo. Lui ora mi ascolta. Usa la ricetramittente e comincia a dialogare con altri tipi. Passano i minuti, tutti i passeggeri dell'aereo hanno intanto abbandonato il gate e immagino che stiano pensando al motivo del loro ritardo, che sono io, una sorta di terrorista.
"Ok" mi dice il solerte impiegato" riavrai la tua bici".
Due della sicurezza mi accompagnano in senso inverso presso lo sportello Ryan Air. Passando dal controllo, riesco a recuperare la mia catasta di roba, la rovescio in uno zaino, e ritorno al punto di partenza - la hall dell'aeroporto - come quando ti imbatti nella casella 58 del gioco dell'oca. Dopo una mezz'ora arriva il sacco nero enorme con dentro la mia bici.
Il mio biglietto per Inverness in fumo, ora è ufficiale.
"Il prossimo volo per Inverness?" chiedo ad un impiegato della Ryan. "Lunedì. Lunedì mattina." Mi dice sorridente mentre abbassa la saracinesca dello sportello e mi augura un buon weekend.
Un incubo. Sono le otto di sabato sera. Non so nemmeno come si chiami il posto dove mi trovo. Ho un borsone e tre zaini, non ho un posto dove dormire. L'unica cosa certa è che tra una settimana dovrò ripartire per Pisa da Glasgow, molto più a nord rispetto a dove sono adesso. Prendo un carrello portabagagli, mi trascino fuori dell'aeroporto e vado presso la compagnia dei taxi.
"Sì?"
"Vorrei andare in un albergo della città più vicina a questo aeroporto."
Il tassista mi guarda perplesso.
"Ci sono tre città vicine: Nottingham, Leicester, Derby. Dove vuoi andare di preciso?"
"Non saprei."
"Allora perchè sei atterrato qui?"
"Perché sono partito da Pisa e sarei voluto andare a Inverness, ma l'aereo bla bla bla..." e così facendo gli snocciolo la mia storia lacrimosa.
Il tassista scende di macchina, confabula con altri tassisti. Poi fa una telefonata. Infine si rivolge a me.
"Figliolo, vai in aeroporto. Al servizio informazioni c'è una signora che ti aspetta e ti potrà dire come raggiungere Inverness prima di lunedì mattina."
Vado.
La signora mi sta aspettando con un foglio stampato.
"Il National Express e il Megabus Express."
"Prego?"
La signora mi mostra il foglio.
"Questi due bus sono la soluzione per te. Alle 22,30 prendi il National Express che ti farà raggiungere Sheffield a mezzanotte e alle 2,45 prendi il Megabus Express che ti porterà a Inverness. Arriverai alle 13,00 di domani. Se il tuo viaggio deve partire da Inverness, devi raggiungere Inverness. No?"
Non fa una piega. Sorride e mi porge il foglio. Dopo tutta la freddezza dimostrata dai dipendenti Ryanair nei miei confronti, l'interessamento dei tassisti e di questa signora mi riscaldano un po' l'animo.
Improvvisamente vengo attraversato da una serie di considerazioni bizzarre e allo stesso tempo per me affascinanti. Ok. Va bene così, dico tra me e me. Dovrò rivedere i miei progetti: rimandare di un intero giorno l'inizio dell'avventura in bicicletta, ma almeno lunedì mattina potrò essere già in strada, invece di perdere una ulteriore giornata. E spostandomi in autobus, attraversando più di mezzo regno unito, mi potrò meglio rendere conto di quanto sia lontana la Scozia, di quanto decisamente a nord si svolga il mio viaggio, di come tutte le mie certezze - a partire dalla guida a destra - siano state abbandonate sul nastro trasportatore di un aeroporto della Gran Bretagna. Di come dovrò adottare nuove categorie di pensiero.
Mi avvio verso l'unico bar aperto dell'aeroporto per mangiare un panino, fare scorta di acqua minerale e kit-kat. Più tardi, mentre i fari del grande bus staranno perforando l'intera notte di un territorio a me ignoto, penserò con soddisfazione di essere piombato in un libro di Kerouac.
L'avventura on the road è appena iniziata.
(Toni La Malfa)
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