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sabato 28 marzo 2009

Diamoci un taglio




Diamoci un taglio

Non so perché la mamma fa così.
Forse è colpa mia. Vorrei chiederglielo ma non ho il coraggio. Bisogna essere coraggiosi per fare certe cose e io non ce l'ho quel coraggio. Vorrei andare di là e chiedergli: "E' colpa mia?". E' semplice. Solo tre parole. Eppure non ce la faccio. E' vero che se poi non è colpa mia, allora mi sento meglio. Ma se fosse colpa mia, non ce la farei a guardarla negli occhi. Sarebbe una cosa brutta. Sapere che non gioca più con me, per colpa mia. Mi dice sono stanca tesoro, e se ne va a letto e dice vai di là tesoro, vai con il tuo babbone.
Si gira e spegne la luce.
E poi sapere che non sta più in bagno con me per colpa mia, sarebbe brutto. Prima facevamo la doccia insieme, ora invece si chiude a chiave. Quando io devo fare la doccia, mi aiuta sempre, ma lei sta vestita con la tuta o il pigiama, anche se si bagna e poi si deve cambiare. Io gli dico di levarsi la tuta che poi si bagna, e lei dice di no.
Io sono un po' monello, ogni tanto ne combino una, ma non voglio che la mamma non giochi più con me per colpa mia. Ma poi, anche se non fosse colpa mia, sì mi sentirei meglio, ma solo un poco poco meglio. A pensarci bene, la cosa che mi dispiace davvero è il fatto che da un po' di tempo la mamma non gioca più con me.
Ha cambiato i capelli, ma quello no, non per colpa mia. Dovrei fare una magia per cambiare i capelli alla mia mamma, e io non sono un mago, non sono un brujo. Li ha cambiati in un modo magico, lei sì che è un'encantadora. Perché un giorno se li è tagliati molto corti dal parrucchiere, non stava bene ma non gliel'ho detto, e nei giorni a venire vedevo capelli in tutte le stanze, anche se la mia mamma - o anche il babbo, perché lei era molto stanca - passava il folletto tutti i giorni. Poi una mattina ho visto la mamma con i capelli lunghi. Come i capelli di un'egiziana del libro sull'Egitto che mi piace tanto. Belli, tanti, lisci, neri. Una magia. Come li aveva l'altr'anno al mare, ma un po' più lunghi.
Io ho chiesto alla mamma se quest'anno torniamo al mare, lei ha detto speriamo, sì. Speriamo, mi ha detto, e poi mi ha abbracciato e mi ha detto sì, tesoro, ci andremo.
Io spero in un'altra magia.
Spero che la mamma ritorni a giocare con me.
La mamma e il babbo hanno già fatto una grande magia tanto tempo fa.
Io stavo in una casa grande con tanti letti e tanti bambini. Tutti i bambini, come me, stavano aspettando il loro papà e la loro mamma. Una maestra tutti i giorni ci diceva che un giorno il nostro papà e la nostra mamma sarebbero venuti a prenderci.
E un giorno sono venuti.
Il primo giorno sono venuti mentre giocavamo nel cortile, ma non mi hanno detto niente. Me li ricordo bene. Si guardavano intorno come se non sapessero chi fosse il loro bambino. Poi sono venuti un altro giorno e mi hanno guardato sorridenti e mi hanno detto: "siamo il tuo papà e la tua mamma!" E' stata una grande magia, quella. Mamma, devi farne un'altra ancora. Come quella, e come quella dei capelli.
Devi tornare a giocare con me.
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Ogni giorno che passa è un tormento.
Ci hanno detto che il periodo più critico sono questi due anni a venire. Poi le percentuali delle aspettative di vita salgono molto, ma fino a dieci anni la sicurezza matematica non ce l'hai mai. I medici, poi, mi hanno preso da parte e mi hanno detto che sarebbe un miracolo.
Ho pianto. Ho pianto. Ho pianto.
Poi mi sono asciugato le lacrime e sono tornato di là.
Era così bello prima, prima di diventare così traballanti. Mi ricordo il giorno in cui siamo scesi dall'aereo con Matteo. Lui ci diceva brujo, encantadora, magica. Insomma, ci aveva preso per due maghi. Che risate.
Fin dal primo giorno lui si è affidato a noi. Matteo è una delle nostre ragioni di vita. Le maestre della scuola materna ci dicono che Matteo si stupisce di tutto, si meraviglia, si appassiona. Ogni giorno ci appassiona. Se non fosse per quello che è successo, saremmo felici. Io credo, sì, che in questi due anni trascorsi - prima degli ultimi sei mesi - noi tre siamo stati insieme felici, di una felicità inattaccabile come una fortezza a picco sul mare. E anche questo, sì, anche questo ricordo è un tormento.
Oggi stiamo attenti ad ogni suo minimo dolore, ad ogni suo respiro affannoso, ad ogni segnale corporeo di Francesca, temendo il peggio. Vorrei un po' del suo dolore fisico, vorrei un po' del suo vomito e del suo smarrimento, vorrei donarle i miei capelli, che comunque stanno ricrescendo. Vorrei una cicatrice sul petto e qualche bruciatura.
Vorrei che Francesca non si ammalasse.
Matteo la guarda con un po' di sospetto in questo periodo. Forse la vede stanca. O forse è il fatto che Francesca non ce la fa a dedicargli tutto il tempo che gli dedicava prima. Cerco di compensare le sue assenze, quelle fisiche - le mattine in ospedale - e quelle in cui Francesca c'è ma non c'è.
Io la amo.
La paura di perderla me la fa desiderare ancora di più.
Forza Francesca. Forza. Forza.

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Ho un taglio sul petto.
Signora, c'è da tagliare, mi hanno detto. Tagliamo, ho risposto.
Quell'incisione ha diviso la mia vita tra un prima e un poi. E sta lì per ricordarmelo, del resto come è possibile dimenticare?
Mi guardo allo specchio, nuda, e mi manca la mia femminilità. Mi copro con le braccia la parte destra del petto e penso a prima. Ma le braccia si stancano, mi cascano, e rivedo quelle cicatrici. C'è anche il rossore intenso della radioterapia. Un paio di ulcere sulla pelle. L'assenza dei capelli. Un cranio nudo e degli occhi infossati che mi osservano. Stento a riconoscermi. Con un seno sì ed uno no. E quel colore pallido del corpo, annacquato dalle flebo e dai miei malori. Sono ancora una donna? Assomiglio a uno di quei fantasmi asessuati provenienti da Auschwitz.
Michele è dolce con me. E' comprensivo. Ma non riesce a dissimulare fino in fondo quel vago senso di compassione, quella stucchevole pietà che mi rende a mia volta sfuggente. Non può farci niente, poveretto. E' costretto a guardare questo animale che gli sta accanto, e ad interpretare le tempeste che si stanno scatenando nel mio corpo.
- Cisplatino (80 mg/mq );
- Gemcitabina (1000 mg/mq);
- Fluorouracile (infusione, 200 mg/mq/die).
Questi nomi ora sono dentro di me. Quando li ho letti la prima volta, ho pensato con sufficienza che sarebbe bastato essere forti, essere pronti ad accoglierli. Questi nomi periodicamente mi invadono, mi squassano, mi strapazzano, mi succhiano le energie, e io soccombo, mi arrendo. Chissà se hanno strapazzato anche il mio nemico, quelle celluline impalpabili che se ne stanno nascoste chissà dove.
Dopo l'intervento ho preso coscienza di quelle celluline, prima no. Prima pensavo al quel gonfiore situato nel seno destro, e basta. E' stato un grosso dolore pensare al fatto che mi avrebbero tolto un seno. E ho avuto anche molto dolore dopo l'intervento. Ma riuscivo ad accettarlo. Pensavo: mi hanno amputato, sono menomata, invalida, una donna imperfetta, ma la cosa finisce lì.
Invece no.
In 21 linfonodi su 40 hanno trovato quelle cellule. Mi ricordo l'aria di imbarazzo dei due medici che ogni tanto si guardavano l'un l'altro. Non si preoccupi, faremo un "total body", no non abbiamo trovato niente, o forse erano solo lì, bisogna monitorare attentamente, non bisogna sottovalutare niente, cose così, che giravano intorno ai loro sguardi di morte; stavano guardando me, per loro e le loro statistiche ho capito di essere già morta. Non c'è niente in altre parti del corpo, ma non ha molta importanza.
Arriveranno.
Nella maggior parte dei casi ritornano. A deturpare qualche altra parte del corpo: ossa, polmoni, cervello, chi lo sa? Se scamperò a questi due anni, è come se avessi vinto il superenalotto e sopravviverò. Anche se la certezza matematica di averla scampata, fino a dieci anni, non l'avrò. Percentuali, statistiche, tempi.
Il tempo. Come quella canzone di Fossati: "Il bacio sulla bocca": "...Bella, non ho mica vent'anni ne ho molti di meno e questo vuol dire (capirai) responsabilità.... ". Lì per lì non capivo quei vent'anni, poi ho intuito che si tratta degli anni rimasti da vivere. E' un vecchio che parla. I vecchi contano alla rovescia, come me.
Due, dieci, venti. Magari. Potessi vedere Matteo alle scuole superiori. Dopo ogni chemio non ce la faccio a giocare con lui; sono stanca, mi impongo di chiedere, giocare, parlare. Ma quei nomi - il cisplatino, la gemcitabina, il fluorouracile - prendono il sopravvento e non mi rimane che chiudere gli occhi senza sonno. E non posso spiegargli che cosa stia succedendo, che forse muoio. Mi ha trovata da poco, non voglio che perda ancora una volta la sua mamma. Non voglio. Che fregatura sarebbe. Chiudo gli occhi, mi giro sul fianco sano. Tocco il mio seno sano, quando le ferite della radio saranno rimarginate, potrò farmelo ricostruire, ad immagine e somiglianza del seno indenne. Quando. Se. Matteo. Michele. Io.
Sono stanca. Chiudo gli occhi, una mezz'ora.
Poi vado a giocare con Matteo.

lunedì 23 marzo 2009

Vanessa





"Pronto?"

"Giulia, sono arrivato."

"Meno male, Stefano. Mi stavo agitando un po'...Tutto a posto?"

"Sì. Solo mezz'ora di ritardo. Ma il viaggio è andato bene."

"Quando mi chiami?"

"Giulia, qui sono le sette di sera. Arrivo in albergo e provo a dormire, sono stanco. Ti chiamo domani, alla pausa pranzo. Più o meno all'una, se non faranno ritardo, e lì saranno le...sette di sera."

"Va bene. Mi manchi, tesoro."

"Anche tu. Un bacio alla piccolina."

Stefano si avvicinò con il suo trolley ad un bar, mangiò due hamburger. Poi prese un taxi, arrivò dopo un'ora in albergo, il Greenwich Hotel, e si buttò sul letto, giusto il tempo di togliersi la giacca.

Si soffermò con lo sguardo sulla bocchetta anticendio posizionata sul soffitto. Per un attimo gli sembrò una telecamera, e istintivamente si fece scudo con le mani. Solo un attimo, poi riprese il controllo e tirò fuori il portafoglio, e dal portafoglio un biglietto che riportava un nome: "Lq" 511 Lexington Ave, Manhattan, New York.

Si rialzò di scatto, fece una doccia, si vestì. Fece chiamare un taxi. In meno di mezz'ora giunse a destinazione. Nel pagare la corsa gli scivolavano i dollari tra le mani, erano impregnate di sudore.

Stefano fece la fila per l'ingresso, pagò ottanta dollari, e una volta entrato in sala, esibì ad un cameriere un foglio.

"Prego, di qua."

"Grazie."

Lo accompagnò in una saletta.

"Chiamo subito la signora."

Fece l'ingresso una donna. Sorrideva.

"Ciao, mi chiamo Brenda. Rilassati. E' la prima volta?"

"Sì."

"Come ti chiami?"

"Stefano."

La donna lo osservava, poi gli girò intorno.

"Faccio tutto io? Mi dai carta bianca?"

"Direi di...sì."

"Bene," sorrise ancora "sei un bell'uomo, ed hai dei lineamenti molto delicati."

"Grazie." Stefano deglutì rumorosamente.

"Spogliati, Stefano. Completamente. E poi sdraiati sul lettino."

Stefano fece come le aveva detto Brenda.

"Ci vorrà un bel po'. Ma vedrai..."

Passò un sacco di tempo con lamette, gel e crema. Dappertutto. Gli ripassò anche la barba, più volte. Poi lo fasciò in modo molto aderente sopra i fianchi, in modo da ottenere delle curve, delle dolci rientranze. Gli sistemò il reggiseno imbottito, una quarta misura, e le autoreggenti in pizzo. Anche le mutandine erano imbottite, in corrispondenza dei glutei.

Brenda aprì un armadio, scelse una parrucca nera, a caschetto stile anni venti, e dopo avergli fasciato i capelli corti, gliela adattò sulla testa. La pettinò. Poi una gonna a tubo nera, una maglia nera con strass, elasticizzata, pari collo. Un paio di scarpe décolletées di vernice nera con tacco. Orecchini a goccia dotati di clips, una collana di perle, un solo giro. Una pochette, anch'essa nera.

"Come vuoi farti chiamare stasera?"

"Vanessa."

"Vanessa, sei uno schianto. Siediti davanti allo specchio."

Un fard pesante per mascherare alcuni punti di barba indomiti, mascara, ombretto, rossetto di colore rosso cupo. Unghie finte, smalto.

"Ecco qua. Cammina avanti e indietro. Prova"

Stefano - o Vanessa - si guardò attentamente allo specchio. Si alzò, poi appoggiò una mano sul fianco destro. Poi girò incerto verso il fondo della stanza.

"Tieni su il sedere, Vanessa. E fai il passo più corto."

Camminò avanti e indietro per cinque minuti, pian piano il disagio si attenuava, infine si sciolse in un sorriso verso Brenda.

"Cara, sei splendida. Dico sul serio."

Vanessa sorrise ancora.

"I tuoi vestiti non te li tocca nessuno, Vanessa. Sono in questo armadio, tieni la chiave. I vestiti che hai indosso li butterai in quella cesta Puoi tornare entro le quattro del mattino."

Brenda dette un bacio leggero a Vanessa.

"Quanto ti devo?"

"Fanno duecentocinquanta dollari."

"A te."

"Buona serata, Vanessa."

Brenda porse una giacca di pelle a Vanessa, la aiutò a indossarla.

Vanessa attraversò il locale, si diresse verso l'ingresso. Alla cassa le dettero un pass.

Vanessa stava passeggiando per le strade di Manhattan a migliaia di chilometri da casa, dalla casa di Stefano.

Era autunno inoltrato, per fortuna non pioveva, sarebbe stato un disastro, pensò. Si strinse alla pochette e si guardava intorno, eccitata come una ragazza al ballo di fine anno.

Vanessa era attratta dalle metamorfosi, dai cieli che non sai se sia ancora notte o già mattina, dalle rane che crescono con le branchie e sviluppano in seguito i polmoni, dai bruchi poi farfalle, dai periodi di trasformazione come dall'infanzia all'adolescenza, dall'inverno alla primavera. Dai caratteri indecisi. Dai sessi che si tingono di tutto un po', come il suo. Ora sarebbe stata Vanessa, per le quattro ore a venire. Cercò di camminare in modo più naturale possibile, come Vanessa avrebbe potuto fare. Sì, era Vanessa, adesso. In tutto e per tutto, e pensava come Vanessa avrebbe pensato. Incrociò un uomo, lo osservò interessata, come una Vanessa più che disinvolta avrebbe fatto. Poi un poliziotto di quartiere, che giocherellava con il manganello.

Poi si immaginò dei particolari intimi. Vanessa a letto con un nero, un nero che camminava in direzione opposta alla sua, che per caso l'aveva sfiorata; lui non ci aveva fatto caso, ingobbito nel suo bomber, lei sì. Lo aveva osservato in mezzo ai pantaloni, aveva cercato di indovinare, di intuire. Poi si mise a guardare una vetrina, un vestito che era un amore, un amore per Vanessa.

Si fermò in un bar, neon azzurri elettrici, specchi, e pavimenti a specchio. C'era una fila di quattro giovani uomini seduti al bancone.

Vanessa si sedette accanto.

"One Manhattan, please". Vanessa si sarebbe bevuta Manhattan.

D'un fiato.

Gli uomini si girarono verso di lei.

Succeda ciò che deve succedere, pensò Vanessa.


lunedì 16 marzo 2009

Il mio cammino di Santiago 9 - l'arrivo



Melide, nove giugno, le sei meno un quarto.
Oggi non ha senso dormire un'ora in più. C'è la meta del viaggio che chiama; c'è la cattedrale di Santiago che vorremmo raggiungere entro mezzogiorno; c'è un giorno che vorresti che durasse più a lungo possibile, nonostante che qui, in questo periodo dell'anno, tu veda il sole inchiodato nel cielo - tramonta dopo le dieci - e tu ti illuda, a momenti, che la notte non arriverà più.
Ti confronti con quella poesia di Kavafis, Itaca:
"...Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
in viaggio: che cos'altro ti aspetti?..."
Con Itaca nel cuore viaggi con poche preoccupazioni. Quando Itaca vacilla, il viaggio perde di senso, di significato. In tal caso il luogo in cui ti trovi non ti regalerà esperienza, non ti concederà consapevolezza, ti potrà dare solo alcuni sprazzi di bellezza che però non saprai come usare. Se sai di tornare ad Itaca, dai un senso al ritorno, e con il ritorno dai un senso al viaggio stesso. Altrimenti il cammino non sarà più un percorso; sarà una zattera in mare aperto, senza alcun punto di riferimento, senza alcun luogo verso cui tornare. Se Itaca è un'immagine netta impressa indelebilmente in qualche tua circonvoluzione cerebrale, sai perché tornare. Ci sto ancora pensando, alla mia Itaca: perlopiù vivida, ma in certi momenti mi sfugge. In quei "certi momenti" tutto perde di significato. Ma questa è un'altra storia. Nel frattempo ritorna la mia faccia assonnata sullo specchio del bagno.
Dormito poco e male: i letti a castello in legno, un po' logori, cigolavano per ogni minimo spostamento. Poco importa, oggi è un gran giorno, possiamo tranquillamente lasciarci questa notte alle spalle.
Fa quasi freddo, c'è da partire con giacca, guanti, e il berretto sotto il caschetto; dopo i bagagli, dopo una colazione abbondante - ti vien da pensare che ogni atto che era diventato routine lo stai compiendo per l'ultima volta, con una punta di nostalgia - usciamo fuori dal paese, con il sole che sta ancora giù, dietro quelle colline. Pare di essere in Scozia, in Irlanda, gli stereotipi si sprecano.
Anche oggi un continuo percorso a denti di sega, dobbiamo attraversare a perpendicolo molte valli, solcate, nei loro punti più bassi, da altrettanti fiumiciattoli affluenti del Tambre, un fiume più a nord, parallelo al nostro percorso. C'è una fitta nebbia nei fondovalle, e nelle discese - tanto per non rischiare di non vedere un ostacolo - dobbiamo moderare la velocità. Poi arriva il sole. Pian piano.
Rischiara le fattorie, i boschi di altissimi eucalipti, i mucchi di letame, il resto si perde nella nebbia, conferendo un effetto flou a tutto il panorama. Mi assale l'emozione, mi fermo a fare qualche foto. Un'immagine in particolare: alcuni fili della luce che, sempre per la nebbia, sembrano appesi ad un albero da una parte, e sospesi nel nulla dall'altra, il cielo bianco per la commistione sole-nebbia.
Il viaggio prosegue in un continuo avvicendarsi di boschi e pascoli, la nebbia se ne va di punto in bianco, ora il sole imprime le ombre dei nostri corpi e delle bici in modo netto, come se fossero state scolpite sull'asfalto. Via via che ci si avvicina a Santiago, aumenta il traffico, la strada è una superstrada, la speculazione edilizia - quartieri dormitorio, agglomerati di seconde case senza servizi - si fa vedere anche da queste parti. Intravedo l'aeroporto che raggiungerò domani per tornare a casa. In cima ad una salita abbandoniamo l'asfalto, la periferia è una serie di sentieri con ripide rampe di sterrato. Dopo mezz'ora circa raggiungiamo la sommità del Monte Gozo, a cinque-sei chilometri dalla città. Si vede tutta Santiago, si intravedono le guglie della cattedrale. Via via che ci avviciniamo, aumenta vertiginosamente il numero dei pellegrini che incontriamo. Ci sono anche quelli che vengono mollati dai pullman turistici agli ultimi dieci chilometri, tanto per dire che un tratto del cammino l'hanno percorso anche loro. Ma ci sono tutti gli altri, quelli che sentono allegramente l'aria dell'arrivo, quelli un po' malandati ad un ginocchio, o quelli che si sono beccati una tendinite; in tutti i casi pensano che non è proprio il caso di fermarsi qui, e stringono i denti, alcuni zoppicano, in molti salutano, sorridono. "Buen camino" e "Ugualmente" sono le parole più utilizzate stamani.
"Santiago de Compostela", ecco il cartello che ci dà il benvenuto in città. Ci fermiamo per la prima tranche - il resto davanti alla cattedrale - delle foto, degli abbracci, degli ululati di gioia.
Michele, che si dovrà sposare il 14 luglio, che ha cercato il buon auspicio da questo viaggio per quello che inizierà tra un mese, è visibilmente commosso; nel giro di cinque minuti scarsi ci abbbracciamo - io, Mathias e Michele - almeno cinque volte. Telefoniamo a Paolo - ha condiviso con noi più di seicento chilometri, è come se fosse qui con noi - che arriverà con l'autobus nel pomeriggio, ci saluteremo prima di ripartire per le nostre case, gli raccontiamo questa mattina densa di emozioni.
Ma non siamo ancora arrivati. Riprendiamo le bici, ci immettiamo in una grande arteria piena di macchine e smog, ma non ci importa nemmeno questo. Le indicazioni per la cattedrale sono un toccasana, ci fanno percorrere gli ultimi chilometri dei novecentoventi complessivi di gran carriera, a parte la viuzza affollatissima che ci conduce alla piazza, Plaza de Obradoiro.
Ci siamo.
La cattedrale è davanti a noi. Un groviglio di sensazioni inestricabile. Difficile da raccontare.
Una felicità che ti prende improvvisa, anche se non sai spiegare il perché. Urla di gioia - seconda tranche - e poi, visto che sono le undici e un quarto - la messa in cattedrale sarà a mezzogiorno - ci affrettiamo verso il vicino ufficio per esibire la nostra credencial del camino zeppa di timbri ed ottenere la "compostela", un diploma in pergamena che ci ricorda in bella grafia che oggi siamo arrivati qui, attraverso un antico - ha più di novecento anni - percorso, lungo più di ottocento chilometri. C'è una lunga fila su per le scale che conducono all'ufficio. Anche quando ti danno il diplomino, anche quello è un bel momento. Entriamo alle dodici e dieci a messa già iniziata. E' sabato, la cattedrale è piena. Un cardinale officia la messa.
La gente, che bella. Qualcuno in preda a attacchi di pianto, gioia, sorrisi, molti con gli occhi lucidi. Qualcuno non ce la fa a mantenere un certo contegno, si deve togliere gli scarponi, appoggiato ad una colonna, con il viso segnato dal sole e dal sudore, i piedi maculati da cerotti, compeed e garze. Ci sono pellegrini provenienti da tutto il mondo, e Santiago è ormai avvezza ad accogliere le più svariate etnie e religioni. Tutti questi pellegrini accomunati da un percorso; tutti questi uomini e donne investiti dall'accoglienza, l'ospitalità, la comprensione degli spagnoli in genere.
E' tutto. Anzi, un paio di cosette ancora.
Quest'esperienza sta continuando a produrre effetti ancora oggi. Ogni tanto sogno di essere in mezzo a quei campi di grano, su una montagna, o in prossimità di quelle quattro case in pietra che ti appaiono all'improvviso, dopo aver attraversato un ruscello.
Il Camino è imprevedibile. Lo è il tempo metereologico, il percorso, le persone che incontri, i letti in cui dormi, te stesso. Non bisogna opporre resistenza, e si deve adottare uno sguardo che lasci spazio allo stupore.
C'è da lasciarsi levigare - come un ciottolo di fiume - e far sì che gli avvenimenti decidano in tua vece.
Itaca - lo spero - attende il ritorno. Senza fretta.
Buen Camino a chi è passato di qua.

(Toni La Malfa)

mercoledì 11 marzo 2009

L'ascensione del primo agosto

"A che piano?"
"Sesto"
Il signor Giuseppe Forti preme il numero 4 ed il numero 6. Le porte si chiudono, la luce del giorno scompare. Gira lo sguardo - solo un attimo - verso la signora Maria Consoli e infine ruota il corpo verso le porte metalliche. Immobile. Anche la signora Maria Consoli guarda l'uscita, con le braccia convergenti in basso, unite a mo' di preghiera con le mani intrecciate. Un suo piede balletta impercettibilmente.
Nella pulsantiera le luci passano dall'1 al 2 al 3, poi si spegne il 3 e non si accende il quattro. L'ascensore si ferma, sospeso nel nulla. Il signor Forti rivolge lo sguardo interrogativo verso la signora Consoli. La signora ricambia lo sguardo interrogativo, il piede non balletta più.
"Si è bloccato. Siamo bloccati." Dice la signora.
Il signor Forti preme con decisione il pulsante di allarme. Ancora. Ancora. Silenzio.
La signora poggia un sacchetto di plastica per terra, tiene la borsa beige di pelle tra le mani, la apre e prende il telefono, lo guarda. "Non c'è campo."
Il signor Forti tira fuori da una tasca dei pantaloni il telefono, lo guarda.
"No, niente linea." Si sbottona l'ultimo bottone del colletto della camicia. Preme ancora il campanello a lungo. Batte sulle porte metalliche. "Aiuto! C'è nessuno?"
"E' il primo agosto, è sabato. Tutti gli uffici sono chiusi. Temo che non ci sia nessuno nel palazzo." Dice la signora Consoli con un filo di voce.
"Siamo nel 2009, non siamo nel dopoguerra, accidenti. Queste suonerie dovrebbero collegarle con delle centrali. L'ho visto in altri ascensori. E ora?"
"Non so." dice la signora, e intanto appoggia anche la borsa in terra. Incrocia le braccia. "Fa caldo."
"Sì." dice il signor Forti. Rivolge il suo sguardo verso la signora. " Qualcuno potrebbe venire a cercarla?"
"No. Vivo sola. Mio...il mio ex marito vive a Genova. Lo sento solo una volta al mese. E lei?"
"Io? Cosa?"
"Qualcuno potrebbe venire a cercarla?"
"No. Mia moglie è andata al mare con i miei figli. Torneranno lunedì mattina. Io sono consulente del lavoro, devo organizzare le buste paga, sono indietro, sa."
"Capisco. Ma non si aspetterebbe una chiamata oggi dal mare?"
"Non...la verità è che io e mia moglie siamo in rotta, in casa ci parliamo solo in modo formale. E non ci telefoniamo. E... e i miei figli hanno 15 e 17 anni, hanno altro a cui pensare, piuttosto che telefonare al papà."
"Mi spiace. Per lei e sua moglie, intendo."
"E' la vita. Ma lei. Che viene a fare qua di sabato?"
"Sono una pubblicitaria, ho una riunione lunedì mattina con i clienti committenti ed il mio capo, sto organizzando una presentazione per il lancio pubblicitario di un...di un lassativo. E poi non sono nello spirito di gite fuori porta. Tanto più che andando al mare, scusi sa, è una specie di nevrosi, è come se...mi avvicinassi al mio ex-marito, e non ne ho voglia, francamente."
"Capisco." il signor Forti si attacca di nuovo al pulsante, lo preme a fondo per un lungo tempo. Poi lo preme ritmicamente con brevi intervalli, infine appoggia un orecchio sulla porta.
“Comunque” riprende la signora “stasera verso le sette passerà il mio capo. Per ritirare il file powerpoint, cambiare una, due parole dalle didascalie e dire che “siamo una grande squadra”."
“Beh, menomale,” dice il signor Forti “menomale che passerà il suo capo, intendo. Non per il fatto che si prende il merito del suo lavoro.”
“Per quello, ormai, ci sono abituata.” La signora Consoli aggrotta le sopracciglia. “Il fatto è che, di questi tempi, è difficile trovare un altro lavoro, un lavoro che ti possa gratificare, realizzare.”
"Già. Uff...Non c'è proprio nessuno. Niente." Si gratta la testa, poi si volge verso il grande specchio alle loro spalle. Intravede l'immagine riflessa del sedere ben tornito e delle gambe affilate di Maria. "Le dispiace se mi siedo per terra?"
"No, no. Faccia pure."
Il signor Forti si siede, appoggia la schiena su una parete accanto alle porte, è rivolto verso la gonna della signora Consoli. A trenta quaranta centimetri di distanza dal lembo inferiore della gonna blu
plissettata. Maria si allontana verso la parete opposta.
"Mi metto anch'io a sedere." Si accuccia, incrocia le gambe, tenendo le braccia sulle ginocchia, rivolta verso Giuseppe. Stanno uno davanti all'altra, come in una seduta di yoga. Lo guarda. E' magro, ha uno sguardo vivace e un bel viso.
Sbuffi di disappunto da ambo le parti.
Giuseppe, a sua volta, guarda Maria con una certa attenzione."Ma perché l'ha lasciata suo marito?"
"Una campagna di rottamazione." Sorride gelida. "Ha lasciato me quarantenne in cambio di una venticinquenne. E' ufficiale nell'esercito, è tornato dal Kosovo insieme a Kris."
"Mi spiace tanto. Non avete figli?"
"No."
Giuseppe si rialza, preme il pulsante di allarme, nessuna risposta, si rimette giù. Appoggia i gomiti sulle gambe, poi adagia la testa sulle mani disposte a coppe,. Sta guardando in basso.
"Io...credo che mia moglie si veda con un altro."
"Vuole separarsi?" chiede Maria a bruciapelo. Giuseppe è sorpreso.
"Chi? Io o lei?"
"Lei. Sì, insomma, tu." Maria punta l'indice tremante della mano destra in direzione di Giuseppe.
"E' complicato. Ci sto pensando. La casa è intestata a mia moglie, inoltre mi piacerebbe stare accanto ai figli. E poi non ho la coscienza pulita. Lo scorso anno mi vedevo con una, poi è finita; mia moglie non l'ha saputo. Ma questo non mi fa agire con decisione. E poi...e poi ho dei forti sospetti, non certezze. Uno pensa, uno spera che no, non è così. Ma in effetti per come vanno le cose tra noi, direi, sì, gliel'ho già detto che siamo in rotta."
"Sì, capisco. Si spera che non sia così. Ci si sente invincibili. Indispensabili. Ci si illude, a momenti, che certe cose, come anche le malattie gravi, capitino solo agli altri."
"E' proprio così. Sa che è proprio così come ha detto lei." sospira Giuseppe.
"E' quasi mezzogiorno." sospira Maria.
"Speriamo che capiti qualcuno prima di stasera. A proposito," si alza e si rassetta un po' i vestiti, poi allunga la mano verso Maria " mi chiamo Giuseppe. Piacere."
Lei accoglie la stretta di mano piegandosi un po' in avanti, senza alzarsi. "Viste le circostanze, direi che non è proprio un piacere" sorride "ma insomma, mi chiamo Maria."
Giuseppe si rimette a sedere." Menomale che non c'è il bue e l'asino, saremmo stati molto stretti qua."
Maria sta al gioco, rilancia: "Eh già. La capanna sarebbe un lusso, al confronto, questo è un monolocale uno per uno. Non abbiamo nemmeno la stella cometa. Ho solo uno Star della Motorola senza segnale."
Sorridono, un po' nervosi.
"E io" il sorriso le muore sul viso " io non ho nemmeno il bambino."
"Mi spiace tanto, Maria."
Maria ha occhi celesti, acquosi. Adesso sono colmi di lacrime che non esondano. Giuseppe guarda con grande partecipazione quei piccoli laghi celesti. Pian piano le lacrime tornano dentro, chissà dove diavolo vanno a finire. Maria prende un fazzolettino, si soffia il naso. Ora si schiarisce la voce. Come se volesse dire qualcosa. E in effetti, ha qualcosa da dire.
"Non è un piacere, no," riprende Maria" ma meglio con lei, Giuseppe, che da sola."
"Sì, ha ragione. E' molto meglio. Abbiamo anche delle cose in comune: siamo avanzi di famiglia, desiderosi di lavorare di sabato, uniti dalla sfortuna."
Si mettono a ridere, un po' più rilassati di prima.
"Vuoi un po' d'acqua?"
"Hai l'acqua?"
"Sì. E anche due banane, sarebbe stato il mio pranzo Non l'ho ancora aperta."
"Ah, grazie. Un sorso lo prendo. Solo un sorso, potrebbe essere preziosa."
Maria estrae dal sacchetto una bottiglia."Tieni."
Giuseppe prende la bottiglia. La apre. "Grazie. Comunque non ci metto la bocca. L'ho imparato facendo lo scout." Beve.
"Bene." Maria riprende la bottiglia e beve un sorso attaccata alla bottiglia. "Io non ci riesco."
Giuseppe la fissa, fa una pausa, poi azzarda: "Se berrò di nuovo, per me sarà un piacere."
"Cosa?"
"Pensare che hai toccato la bottiglia con le tue labbra."
"E ora?" Pensa Maria. "E ora che succede?" Giuseppe si sposta, si avvicina accanto a lei. Si avvicina con le sue labbra, Maria non si tira indietro, anzi, lo accoglie. "Questo succede", pensa.
Ora Giuseppe e Maria si tengono per mano, seduti. Guardano avanti, verso la parete in metallo. A destra lo specchio, a sinistra le porte.
"Il tuo ex-marito è un coglione."
"Grazie." sorride Maria.
"Sai, Maria. Non è vero che ho dei sospetti. Io sono sicuro che mia moglie mi tradisce. Una mattina si dimentica il telefono acceso a casa, non era mai successo prima. Comincia a squillare. Mi avvicino. Leggo sul display: xxx. Dopo un po' xxx smette di chiamare. A quel punto mi tremano le mani. Premo invio e leggo: "Chiamare XXX?" Premo invio. Suona. "Amore, perché non rispondevi?"
Interrompo la chiamata. Butto il telefono sul tavolo, come se scottasse. Lei poi la sera non mi chiede niente. Forse ha pensato ad un'"interferenza". Durante il giorno mi aveva telefonato, chiedendomi in modo evasivo a che ora fossi uscito. Subito dopo te, le ho risposto. Quindi lei non mi chiede niente di quella chiamata ricevuta dal tipo e registrata sul telefono, no. Io non le chiedo niente di quella voce. Quella voce mi è rimbalzata nel cervello, in testa, da una parte all'altra. Per giorni. E' passato un anno da quella voce. Ora lei va al mare con i figli, io preferisco lavorare."
Maria stringe fortissimo la mano a Giuseppe.
"E' meglio qui."
"Cosa?"
"Meglio qui, in questo ascensore. Meglio qui, con te, che compilare buste paga; meglio qui piuttosto che perfezionare il claim di un prodotto pubblicitario, di un lassativo." riprende Maria.
"Di un prodotto che fa cagare, insomma." risponde Giuseppe.
Ridono, ridono, ridono. Abbracciati. A destra lo specchio, a sinistra le porte. In attesa dell'ascensione.
"Saremo costretti a trascorrere anche il pomeriggio insieme. Credo."
"Credo anch'io, Maria. Spero che arrivino. Ma con calma."
Giuseppe e Maria si rannicchiano abbracciati, in diagonale nel pavimento dell'ascensore. Hanno lo sguardo rivolto verso lo specchio. Sono illuminati dalla luce della plafoniera. La frenesia - persino la paura, persino quella - è passata.
Si tengono stretti, si proteggono l'un l'altra, e sorridono.

domenica 8 marzo 2009

Il mio cammino di Santiago - 8




O Cebreiro, otto giugno, le otto del mattino.
Oggi abbiamo puntato la sveglia più tardi, date le fatiche della precedente giornata. E al risveglio una brutta sorpresa: Paolo ha un ginocchio gonfio e dolente, non può proseguire il Camino con noi. Si ferma qui, su O Cebreiro. Per un giorno, poi vedrà il da farsi. Dopo interminabili giorni di fatiche condivise, l'allegro gruppetto si assottiglia, la tristezza ci pervade. Pare quasi di sentire un Fado del vicino Portogallo.
Prima della partenza, una foto con autoscatto. Immortalati su una specie di terrazzamento naturale, monti e colline sulle sfondo, e un'ampia porzione di cielo che dà una buona approssimazione di quanto orizzonte abbiamo a disposizione. Lo sguardo scanzonato di tutti e quattro; Paolo indossa dei jeans ed una felpa, invece del nostro ridicolo abbigliamento da ciclisti. Abbracci di rito, poi qualche commiato, dei vaghi appuntamenti: forse ci rivedremo a Santiago, comunque ci terremo in contatto, in Italia ci ritroveremo un fine settimana a guardare foto e magari anche per una "biciclettata", chissà...
Si riparte in tre, dunque. Piove. Mi ritorna in testa un canto, una musica - credo - galiziana che ho sentito ieri sera: suonavano delle cornamuse, molto in uso da queste parti. Subito dopo quel canto galiziano avevano solennemente suonato l'inno nazionale scozzese. I paesi baschi, la Galizia, la Bretagna, la Scozia, l'Irlanda... un filo rosso che lega e accomuna popoli distanti l'uno dagli altri centinaia di chilometri, dalle tradizioni forti, da un'identità che suona come accoglienza più che intolleranza. Questi canti mi aiuteranno a sentire meno la fatica, che si affaccia un po' troppo presto, alla prima imprevista salita. 
C'era l'illusione di essere in cima, di avere davanti una comoda discesa, delle cartine non c'è mai da fidarsi. In realtà per dodici chilometri si andrà avanti per saliscendi, e i "sali" sono anche di notevole pendenza. In Alto do Poio, il punto più alto del monte Cebreiro, troviamo una statua enorme di bronzo, un monumento al pellegrino di discutibile gusto.
Ora si scende sul serio, per fortuna la pioggia è lieve. I boschi non lasciano vedere altro che boschi. Verde e blu da un lato, verde e blu dall'altro,  separati dalla striscia grigia della strada. E' semplice. Ti ci abitui, sono giorni che ti alleni a questo, e la complessità  - legata al senso comune che tanto dà per scontato - si svapora, come questa nebbia del mattino. Questa discesa ti dà il tempo per pensare al contrasto tra qui - un niente dalla bellezza rigogliosa - e il mondo che raggiungerai tra un paio di giorni, il mondo che avevi quasi dimenticato, come per effetto di una maga Circe in un'isola mediterranea.
A Triacastela si tira diritto, neanche un caffè, e si torna a salire per un dislivello di trecento metri in cinque chilometri, e via ancora discesa, fino a Sarria. Qui ci fermiamo presso un pittoresco albergo del pellegrino - peccato che stia attaccato ad un distributore di benzina -, ci facciamo timbrare la Credencial(il documento che attesta il nostro percorso), due chiacchiere con la signora che ci parla del Supradine. Ne ha distribuito in quantità industriale ai pellegrini quest'anno, proporrà il Nobel per l'inventore di tale prodigio. Si prosegue, si intravede - sempre in Sarria - dalla strada il torrione di un castello, delle mura medievali. Abbandoniamo il paese, percorriamo la strada asfaltata per fortuna non molto trafficata. Gran caldo, la pioggia di stamani è ormai un ricordo. Ancora salita e poi discesa a capofitto, il profilo altimetrico pare il bordo tagliente di una sega da falegname. Ma questa discesa prende un andamento netto, si va giù, alla nostra sinistra c'è un rio e nel punto più basso di oggi (350 m slm) si arriva a Portomarin; c'è una diga ed un grande bacino artificiale nel quale si intravedono alcuni resti del vecchio paese - affiorano alcuni tetti -  che è stato smontato e rimontato - almeno i monumenti ed alcune case storiche - un po' più in là  e un po' più in su.
Ricominciamo a salire, ma ci fermiamo quasi subito. C'è una ragazza sdraiata in terra, e una che l'assiste. Mathias le dà da bere una soluzione salina, poi prendiamo in custodia il suo pesante zaino per portarlo un chilometro più in là, all'albergo del pellegrino. Dopo un po' arrivano le ragazze, il viso segnato dalla fatica. Ci salutiamo, il loro cammino riprenderà domani. Più in là, nella piazza del paese, ci fermiamo a mangiare qualcosa di veloce e bere un'autocisterna di bevande gassate. Abbiamo ancora sessanta chilometri da percorrere.
Si riprende con una salita non impossibile, ma lunga, che durerà per sedici chilometri; ma è l'ultima grande salita, questo pensiero dà coraggio, una piccola spinta in più. Poi un cartello, enfatizzato da alcuni punti esclamativi aggiunti a penna: SANTIAGO 100 KM. Ormai ci sono, ci sto dentro a questo viaggio, e questo cartello è il primo segno tangibile del fatto che quest'esperienza sta per terminare. Non riesco a spiegare bene la causa - c'è un groviglio di cose su cui dovrò riflettere - l'effetto è un'intensa emozione che mi prende un po' sotto alla bocca dello stomaco.
Il tardo pomeriggio ci accoglie silenziosi, si srotola il nastro d'asfalto, un caleidoscopio di boschi e casette e pascoli che gira a dodici-quindici chilometri l'ora, e noi lì a guardare.
Arriviamo a Palas de Rei che le cose cambiano radicalmente, il nostro libretto che usiamo come guida, un po' manicheo in questo caso, non ci invoglia alla sosta: "Palas de Rei, grande e moderna città piena di macchine e di smog". La statale la percorre interamente, anche noi e via lo smog, mancano ancora sedici chilometri. Arriviamo, finalmente, alla nostra destinazione di oggi: Melide. Sono le sette, abbiamo percorso centodieci chilometri. Ci sistemiamo nell'albergo del pellegrino, non esaltante: le camerate sono un po' affollate, i letti - peraltro corti, da testa a piedi non c'entro, eppure non sono un gigante, sono un metro e settantacinque - gemono al minimo spostamento, vabbeh, doccia e via  fuori a cena.
Melide non ha niente di particolare. Eppure si ferma qui un sacco di gente. Perché? Per la presenza di una "pulperia", la più rinomata di tutta la Galizia. Entriamo. In un angolo del locale c'è un tipo dietro ad alcuni barili che taglia tutta la sera dei polpi con le forbici, e li sistema nei piatti. Il resto è composto da tavoloni e panche in legno. Ci sediamo. Per due ore abbondanti non facciamo altro che mangiare polpi, bere vino e parlare, e ridere. Di continuo. Abbiamo mangiato una quantità impressionante di polpi, bevuto due-tre - o quattro? - bottiglie di vino, e abbiamo speso venti euro a testa. Non ancora contenti, ci fermiamo in un bar a mangiare un gelato, e intanto riprende a piovere in modo torrenziale. Che ci volete fare, in Galizia è così, come in Irlanda.
Intanto parliamo di domani, come non parlarne? Domani ci sarà Santiago. Dobbiamo svegliarci presto, prima delle sei; vorremmo essere a mezzogiorno a Santiago, nella cattedrale.
Non ci sembra vero.
A domani.
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