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lunedì 16 marzo 2009

Il mio cammino di Santiago 9 - l'arrivo



Melide, nove giugno, le sei meno un quarto.
Oggi non ha senso dormire un'ora in più. C'è la meta del viaggio che chiama; c'è la cattedrale di Santiago che vorremmo raggiungere entro mezzogiorno; c'è un giorno che vorresti che durasse più a lungo possibile, nonostante che qui, in questo periodo dell'anno, tu veda il sole inchiodato nel cielo - tramonta dopo le dieci - e tu ti illuda, a momenti, che la notte non arriverà più.
Ti confronti con quella poesia di Kavafis, Itaca:
"...Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
in viaggio: che cos'altro ti aspetti?..."
Con Itaca nel cuore viaggi con poche preoccupazioni. Quando Itaca vacilla, il viaggio perde di senso, di significato. In tal caso il luogo in cui ti trovi non ti regalerà esperienza, non ti concederà consapevolezza, ti potrà dare solo alcuni sprazzi di bellezza che però non saprai come usare. Se sai di tornare ad Itaca, dai un senso al ritorno, e con il ritorno dai un senso al viaggio stesso. Altrimenti il cammino non sarà più un percorso; sarà una zattera in mare aperto, senza alcun punto di riferimento, senza alcun luogo verso cui tornare. Se Itaca è un'immagine netta impressa indelebilmente in qualche tua circonvoluzione cerebrale, sai perché tornare. Ci sto ancora pensando, alla mia Itaca: perlopiù vivida, ma in certi momenti mi sfugge. In quei "certi momenti" tutto perde di significato. Ma questa è un'altra storia. Nel frattempo ritorna la mia faccia assonnata sullo specchio del bagno.
Dormito poco e male: i letti a castello in legno, un po' logori, cigolavano per ogni minimo spostamento. Poco importa, oggi è un gran giorno, possiamo tranquillamente lasciarci questa notte alle spalle.
Fa quasi freddo, c'è da partire con giacca, guanti, e il berretto sotto il caschetto; dopo i bagagli, dopo una colazione abbondante - ti vien da pensare che ogni atto che era diventato routine lo stai compiendo per l'ultima volta, con una punta di nostalgia - usciamo fuori dal paese, con il sole che sta ancora giù, dietro quelle colline. Pare di essere in Scozia, in Irlanda, gli stereotipi si sprecano.
Anche oggi un continuo percorso a denti di sega, dobbiamo attraversare a perpendicolo molte valli, solcate, nei loro punti più bassi, da altrettanti fiumiciattoli affluenti del Tambre, un fiume più a nord, parallelo al nostro percorso. C'è una fitta nebbia nei fondovalle, e nelle discese - tanto per non rischiare di non vedere un ostacolo - dobbiamo moderare la velocità. Poi arriva il sole. Pian piano.
Rischiara le fattorie, i boschi di altissimi eucalipti, i mucchi di letame, il resto si perde nella nebbia, conferendo un effetto flou a tutto il panorama. Mi assale l'emozione, mi fermo a fare qualche foto. Un'immagine in particolare: alcuni fili della luce che, sempre per la nebbia, sembrano appesi ad un albero da una parte, e sospesi nel nulla dall'altra, il cielo bianco per la commistione sole-nebbia.
Il viaggio prosegue in un continuo avvicendarsi di boschi e pascoli, la nebbia se ne va di punto in bianco, ora il sole imprime le ombre dei nostri corpi e delle bici in modo netto, come se fossero state scolpite sull'asfalto. Via via che ci si avvicina a Santiago, aumenta il traffico, la strada è una superstrada, la speculazione edilizia - quartieri dormitorio, agglomerati di seconde case senza servizi - si fa vedere anche da queste parti. Intravedo l'aeroporto che raggiungerò domani per tornare a casa. In cima ad una salita abbandoniamo l'asfalto, la periferia è una serie di sentieri con ripide rampe di sterrato. Dopo mezz'ora circa raggiungiamo la sommità del Monte Gozo, a cinque-sei chilometri dalla città. Si vede tutta Santiago, si intravedono le guglie della cattedrale. Via via che ci avviciniamo, aumenta vertiginosamente il numero dei pellegrini che incontriamo. Ci sono anche quelli che vengono mollati dai pullman turistici agli ultimi dieci chilometri, tanto per dire che un tratto del cammino l'hanno percorso anche loro. Ma ci sono tutti gli altri, quelli che sentono allegramente l'aria dell'arrivo, quelli un po' malandati ad un ginocchio, o quelli che si sono beccati una tendinite; in tutti i casi pensano che non è proprio il caso di fermarsi qui, e stringono i denti, alcuni zoppicano, in molti salutano, sorridono. "Buen camino" e "Ugualmente" sono le parole più utilizzate stamani.
"Santiago de Compostela", ecco il cartello che ci dà il benvenuto in città. Ci fermiamo per la prima tranche - il resto davanti alla cattedrale - delle foto, degli abbracci, degli ululati di gioia.
Michele, che si dovrà sposare il 14 luglio, che ha cercato il buon auspicio da questo viaggio per quello che inizierà tra un mese, è visibilmente commosso; nel giro di cinque minuti scarsi ci abbbracciamo - io, Mathias e Michele - almeno cinque volte. Telefoniamo a Paolo - ha condiviso con noi più di seicento chilometri, è come se fosse qui con noi - che arriverà con l'autobus nel pomeriggio, ci saluteremo prima di ripartire per le nostre case, gli raccontiamo questa mattina densa di emozioni.
Ma non siamo ancora arrivati. Riprendiamo le bici, ci immettiamo in una grande arteria piena di macchine e smog, ma non ci importa nemmeno questo. Le indicazioni per la cattedrale sono un toccasana, ci fanno percorrere gli ultimi chilometri dei novecentoventi complessivi di gran carriera, a parte la viuzza affollatissima che ci conduce alla piazza, Plaza de Obradoiro.
Ci siamo.
La cattedrale è davanti a noi. Un groviglio di sensazioni inestricabile. Difficile da raccontare.
Una felicità che ti prende improvvisa, anche se non sai spiegare il perché. Urla di gioia - seconda tranche - e poi, visto che sono le undici e un quarto - la messa in cattedrale sarà a mezzogiorno - ci affrettiamo verso il vicino ufficio per esibire la nostra credencial del camino zeppa di timbri ed ottenere la "compostela", un diploma in pergamena che ci ricorda in bella grafia che oggi siamo arrivati qui, attraverso un antico - ha più di novecento anni - percorso, lungo più di ottocento chilometri. C'è una lunga fila su per le scale che conducono all'ufficio. Anche quando ti danno il diplomino, anche quello è un bel momento. Entriamo alle dodici e dieci a messa già iniziata. E' sabato, la cattedrale è piena. Un cardinale officia la messa.
La gente, che bella. Qualcuno in preda a attacchi di pianto, gioia, sorrisi, molti con gli occhi lucidi. Qualcuno non ce la fa a mantenere un certo contegno, si deve togliere gli scarponi, appoggiato ad una colonna, con il viso segnato dal sole e dal sudore, i piedi maculati da cerotti, compeed e garze. Ci sono pellegrini provenienti da tutto il mondo, e Santiago è ormai avvezza ad accogliere le più svariate etnie e religioni. Tutti questi pellegrini accomunati da un percorso; tutti questi uomini e donne investiti dall'accoglienza, l'ospitalità, la comprensione degli spagnoli in genere.
E' tutto. Anzi, un paio di cosette ancora.
Quest'esperienza sta continuando a produrre effetti ancora oggi. Ogni tanto sogno di essere in mezzo a quei campi di grano, su una montagna, o in prossimità di quelle quattro case in pietra che ti appaiono all'improvviso, dopo aver attraversato un ruscello.
Il Camino è imprevedibile. Lo è il tempo metereologico, il percorso, le persone che incontri, i letti in cui dormi, te stesso. Non bisogna opporre resistenza, e si deve adottare uno sguardo che lasci spazio allo stupore.
C'è da lasciarsi levigare - come un ciottolo di fiume - e far sì che gli avvenimenti decidano in tua vece.
Itaca - lo spero - attende il ritorno. Senza fretta.
Buen Camino a chi è passato di qua.

(Toni La Malfa)

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